Mi chiamo Anna e sono in missione come Casco Bianco a Ginevra, la città svizzera sede dal 1946 del quartier generale europeo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e promotrice, da ancor più tempo, dei diritti umani.
Vi voglio parlare di un evento di alcuni giorni fa a cui, spiacevolmente, non è stato dato tanto risalto dalla stampa italiana.
Mercoledì 30 marzo, al Palazzo delle Nazioni Unite, si è tenuta una conferenza mondiale a cui hanno preso parte le cariche ministeriali di più di 90 paesi, e che è stata presieduta dall’Alto Commissario per i rifugiati, il neo nominato Filippo Grandi, affiancato in apertura dal Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon.
Cotante alte rappresentanze governative sono state invitate dall’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ad assumere un impegno importante: collaborare alla rilocazione e al reinsediamento di una quota significativa delle persone scappate dal conflitto in Siria, offrendo strumenti di ammissione e, successivamente, di permanenza all’interno del loro paese. Tale evento avrebbe dovuto rappresentare un momento di plateale espressione della volontà di ogni paese di condividere un comune bisogno di gestire una crisi umanitaria che sta provocando vittime, caos e frustrazione alle porte dell’Europa condividendo un piano di soluzioni fattibili e concretamente utili.
Definiamo brevemente il contesto per via del quale questa Conferenza è stata convocata.
La guerra in Siria ha prodotto più di 6 milioni e mezzo di sfollati all’interno del paese stesso e 4,8 milioni di rifugiati (o almeno questi sono coloro che sono riusciti ad essere registrati come tali dall’UNHCR) nei paesi limitrofi. Il Libano, un paese di poco più di 4 milioni di abitanti, ospita al momento 1 milione di siriani: ciò vuol dire che una persona su cinque è un rifugiato. La Turchia ne accoglie ormai 2 milioni, la Giordania quasi 640.000, l’Iraq 245.000 e l’Egitto quasi 120.000.
Obiettivo dell’incontro era, appunto, unire gli sforzi e collaborare all’accoglienza dei profughi al fine di riuscire a proteggere e assistere i più vulnerabili, migliorare le loro condizioni di vita e alleviare la pressione che un tale numero di persone da ospitare provoca in paesi già economicamente e politicamente instabili. Come?
Il metodo tradizionalmente considerato più efficace (in quanto a lungo termine) nel garantire protezione internazionale ai rifugiati è il resettlement, ovvero reinsediamento. In seguito ad un processo di verifica (generalmente lungo) dei dati del rifugiato, questi viene trasferito in un paese terzo disponibile a offrirgli protezione e la possibilità di ricostruirsi una nuova vita. A livello mondiale, oggi, meno dell’1% del numero totale di rifugiati ha accesso a questa opportunità.
A tale sistema, insufficiente e inefficiente nella risposta all’emergenza attuale, i Governi possono affiancare altri strumenti di tutela, che seppure non garantiscano la protezione a lungo termine offerta dal resettlment, possono comunque costituire una soluzione temporanea e fare la differenza nel tenore di vita di molti.
In vista della Conferenza, UNHCR ha cercato di promuovere i cosiddetti alternative pathways of admission come possibile via di salvezza per alcuni di quei rifugiati provenienti dalla Siria che, ogni giorno fanno la scelta di rischiare la loro vita imbarcandosi su un gommone per raggiungere l’Europa, piuttosto che rimanere in attesa di una soluzione al conflitto tale da permettere loro di fare ritorno a casa, o di rientrare nei pochissimi eletti del reinsediamento, o ancora vedere infrangersi le speranze di condurre una vita normale all’interno di un campo profughi sovraffollato e fatiscente. Tali strumenti, quali – li definiamo – riunificazione familiare, borse di studio per studenti, visti lavorativi, visti umanitari, ed evacuazione di emergenza per assistenza medica, permetterebbero infatti un trasferimento sicuro e regolare da uno dei paesi di prima accoglienza a un paese terzo.
Dal 2013 a oggi, da quando l’esodo siriano ha raggiunto proporzioni tali da renderlo una crisi senza precedenti, per la quale dover trovare soluzioni urgenti, gli Stati occidentali si sono offerti di procedere con l’ammissione di 179.147 rifugiati (dati UNHCR). Secondo stime di OXFAM, gli stati più ricchi hanno reinsediato finora meno del 2% delle persone che sono scappate dalla Siria.
La proposta e la speranza di UNHCR in vista di tale conferenza era l’ottenimento di proposte di ammissione per il 10% di rifugiati entro i prossimi 3 anni; altre organizzazioni della società civile miravano a risultati ancora più ambiziosi. Il 10% degli attuali rifugiati stanziati tra Turchia, Libano, Giordania e gli altri paesi, corrisponde a 480.000 persone. Appena lo 0,08% della popolazione dei paesi OCSE. Sembrerebbe una quota irrisoria, ma in pochi la vedono così.
Le speranze e gli sforzi di advocacy portati avanti negli ultimi mesi si sono infranti contro un triste esito: pochissimi stati occidentali si sono mostrati disponibili ad aprire le loro porte, e l’Europa, il continente in cui e per cui è nata la Convenzione per i rifugiati del 1951, ha esplicitato in svariati modi di essere disposta a sostenere l’accoglienza dei rifugiati solo finanziariamente e fintantochè si fermano al di fuori dei suoi confini.
E’ stato difficile ritrovarsi spettatori di tale capitolazione della solidarietà internazionale, così come è stato difficile trattenere l’imbarazzo al momento dei ringraziamenti agli Stati per i fondi stanziati e l’interesse mostrato (solo a parole) per la causa quando sai che a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, si chiudono le frontiere a più di 10.000 persone bloccate da quasi un mese in condizioni di mera sopravvivenza. Diversi paesi dell’UE si sono persino spinti a qualificare il controverso accordo appena stretto con la Turchia come potenzialmente in grado di prevenire che migliaia di persone disperate si affidino a trafficanti e smugglers per attraversare l’Egeo a costo della loro stessa vita. Se da un lato l’accordo riesce a bloccare nuovi sbarchi in Grecia, dall’altro una vecchia e più pericolosa rotta ha visto aumentare i suoi attraversamenti. La scorsa settimana, più di 3.500 persone hanno raggiunto le coste di Sicilia e Calabria salpando con fragili gommoni dalla Libia.
L’Agenzia UNHCR si è persino ritrovata nella posizione di dover ringraziare quegli stati che hanno appoggiato il piano invece di dichiarare il suo disappunto, dimostrato nei giorni scorsi con forme di protesta agli hotspot insediati nell’isola di Lesbo, funzionali in seguito all’accordo quali centri di detenzione più che di prima accoglienza e smistamento.
Ma più di tutto è stato triste confermare le proprie previsioni circa il risultato di questo grande incontro tra potenti, rivoltosi in un quasi nulla di fatto. Solo 6.000 posti in più sono stati garantiti. Nell’occasione si sono promessi ulteriori impegni che, potenzialmente, aprirebbero la strada all’emissione di altre decine di migliaia di rifugiati. Si aspettano gli altri importanti appuntamenti dell’anno per verificare che tali dichiarazioni si traducono in fatti.
All’ONU c’è chi dice che il 2016, in considerazione dei numerosi eventi internazionali incentrati sulla ricerca di soluzioni e procedure di gestione dei flussi di migranti e rifugiati, possa rappresentare un anno dalla portata ampia e storica al pari del 1951, anno in cui è stata formulata la Convenzione sui diritti dei rifugiati.
Al momento sono costretta a riconoscere che il 30 marzo 2016, in quella sala gremita di alcune tra le massime rappresentanze politiche mondiali e di persone, come me, che sperano in uno slancio di generosità e di consapevolezza di quanto si possa essere veramente fare, non si è fatta la storia. E una parte dell’Europa, quella che in passato si alzava in difesa del rispetto dei diritti umani e dell’affermazione della solidarietà internazionale, se n’è andata e ha lasciato il posto ad un’Europa più egoista che si trincerà dietro muri e false fobie.
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