Io ci sono. Io voglio esserci.
Ogni giorno.
Per chiamarvi per nome.
Siamo a Batumi, capoluogo della regione dell’Ajara in Georgia, sul Mar Nero. La caduta del comunismo, con la conseguente chiusura di molte fabbriche e l’abbandono di molte aziende agricole, ha portato ad una situazione di estrema povertà per una buona parte della popolazione. I minori vedono i propri diritti violati quotidianamente, tanto che a Batumi il 27% dei minori vive in condizioni disagiate, in contesti familiari che spesso non riescono a garantire un’educazione adeguata. Da uno studio dell’Unicef è emerso inoltre che in Georgia un quarto dei tutori dei minori usa regolarmente la forza per imporre una qualsiasi regola educativa.
Non molto fuori dal centro di Batumi, in un territorio abbandonato della città, c’è quello che noi chiamiamo “il campo”. Nato come campo profughi per rifugiati interni – i cittadini dell’Abkhazia esiliati dal governo dopo la guerra del 1992 – oggi è una baraccopoli dove vive la popolazione più povera della città e della regione. La zona non è molto vasta, ma conta circa un migliaio di baracche di legno e lamiera. Le condizioni di vita delle moltissime famiglie che vivono in baraccopoli sono pessime nella maggior parte dei casi.
La baraccopoli è il cuore del progetto Caschi Bianchi della Comunità Papa Giovanni XXIII in Georgia. Una volta a settimana noi volontari portiamo al campo aiuti, materiali per le famiglie più in difficoltà, in particolare pannolini, ma anche vestiti e generi alimentari. Il nostro impegno è poi rivolto ai minori che vivono al campo: i bambini della baraccopoli di Batumi vivono in condizioni di povertà e di carenza educativa, sono spesso sulla strada da soli e non hanno esempi adulti significativi per una crescita sana. Non di rado presentano atteggiamenti e comportamenti disturbati, poco rispettosi nei confronti degli altri e facilmente violenti. In più, al di fuori della scuola, non hanno occasioni ludico-ricreative e di socializzazione organizzate, in cui poter impiegare il tempo ed esprimersi.
Attraverso l’animazione, l’insegnamento dell’inglese e la realizzazione di un laboratorio di circo sociale, vogliamo essere un segno, una presenza educativa. Vogliamo portare un cambiamento, per quanto piccolo. Vogliamo provare a concretizzare le finalità meravigliose a cui siamo chiamati come Caschi Bianchi: la solidarietà, la cooperazione, la trasformazione dei conflitti, la rimozione delle cause, l’educazione ai valori della pace.
Sono obiettivi altissimi, quelli del nostro mandato, quelli che abbiamo messo in valigia prima di partire, sognando di vestirli, di dargli una forma, di viverli. E al tempo stesso non sapendo come avremmo potuto calarli concretamente nella realtà sconosciuta in cui ci stavamo tuffando, come le nostre mani avrebbero potuto impastarli in questa terra straniera.
E mi ritrovo qua, giorno dopo giorno, in una realtà che forse appena inizio a capire, a chiedermelo… Cosa sto realmente facendo? Quale cambiamento sto portando? E una risposta netta, dura, che non vorrei sentire ma che è lì, come sono lì quelle baracche di legno e quelle pozzanghere di fango. Non stai facendo niente, perché la realtà è troppo grande, il problema troppo radicato, i tuoi mezzi troppo ristretti. Non cambierà niente; tornerai al tuo Paese e tutto sarà esattamente come prima. Questa è la risposta che mi accusa, che respiro nell’aria, che più o meno esplicita sento intorno a me.
Ma io non ci sto.
Perché in fondo questa non è la risposta.
Si comincia con l’andare, con l’esserci. Per dire teniamo a voi. Con il sole e con la pioggia, con il caldo e con il gelo. Perché ci teniamo davvero, non siamo venuti a farci un giro.
Non abbiamo cominciato così.
Per i primi cinque mesi di servizio siamo andati in baraccopoli saltuariamente, in media una volta a settimana, e solo col bel tempo. Siamo andati senza un piano, senza attività programmate, senza obiettivi di cambiamento. E’ stato bello, all’inizio, giocare con i bambini che spuntavano fuori dalle baracche, fare un grande cerchio insieme e insegnare loro i nostri bans. Vedere che li imparano come niente, anche se non sono nella loro lingua, e la volta dopo ti chiedono di ripeterli. E’ stato bello chiedere i nomi dei bambini e provare a impararne qualcuno. E’ stato bello vedere che imparavano i nostri, e sentirli urlare dai bambini che ci correvano incontro.
Poi son passate le settimane, i mesi e avremmo potuto riempire un bell’album di fotografie… e poi? Bè, poi dire che… sì, quella risposta netta e dura che non volevo sentire… alla fin fine era la verità.
Ora il progetto è iniziato da qualche settimana e al campo andiamo ogni giorno, per davvero. Abbiamo pensato delle attività, abbiamo scritto degli avvisi e li abbiamo distribuiti, abbiamo parlato con i bambini. Abbiamo scritto i loro nomi. E così ho imparato ad ascoltarli, lettera per lettera, come qualcosa di importante. A scriverli con l’alfabeto georgiano, a leggerli, a riconoscerli, a ricordarli. Abbiamo formato dei piccoli gruppi, delle classi sulla carta, e abbiamo attaccato le liste alla finestra della minuscola baracca che è la nostra piccola fortezza per le attività in baraccopoli. E abbiamo iniziato.
E loro vengono, e chiedono, e chi non c’era il giorno in cui abbiamo preso i nomi chiede di poter partecipare come partecipano i suoi amici. E tornano. E ci aspettano quando sanno che dobbiamo arrivare, pronti davanti alla nostra baracca, anche sotto la pioggia. No, non sono puntuali, non sono ordinati, non sono disciplinati, non sono silenziosi, non sono buoni e tranquilli. Non sono nemmeno rispettosi, proprio per niente. No, questo non è cambiato; non è certo qualcosa che si cambia con un paio di incontri.
Eppure io già qualcosa la vedo. Perché c’è un paio diverso di occhiali da indossare. Perché è dalle piccole cose che si comincia. Ora i bambini che partecipano sono molti di più di quelli che avvicinavamo con i bans in cerchio in mezzo al campo. E ci sono anche i più grandicelli, che prima, se c’erano, era solo per disturbare l’animazione che facevamo con i più piccoli. E sono più costanti e interessati. E mi chiamano per nome ancora di più, un sacco di volte, per chiedermi quando sarà il prossimo incontro, a che ora il loro turno, se possono partecipare anche a quest’altra attività…
E io sto finalmente imparando i loro nomi. Non si tratta di un esercizio di memoria o di maggiore concentrazione. Ho imparato che chiamare per nome è altrettanto importante e bello che essere chiamati per nome. Perché loro non sono i bambini del campo, o quelli che abitano nelle baracche laggiù, o i figli di quello con gli occhi storti, o i piccoli teppistelli che cercano di spaccare la nostra baracca. Loro sono Nika, Sopo, Luka, Lizi, Ghiorghi, Ana, Zviadi, Mzia, Chabuca, Natia, Zauri, Diana, Beso, Xatia, Andri, Eteri... Certo, non cambia quello che sono, le storie da cui provengono, dove vivono, come si comportano e come rischiano di crescere. Ma è proprio qui che siamo chiamati ad essere Caschi Bianchi.
E cambia che ora possiamo chiamarvi per nome, e siamo molto più vicini. Cambia che ora comincia a nascere qualcosa che prima non c’era. E’ l’inizio di una relazione. Perché ora ci siamo davvero. Con il sole e con la pioggia, con il caldo e con il gelo. Perché teniamo a voi. E magari imparerete che se ci rispettiamo possiamo costruire qualcosa insieme.
Non è niente, ed è solo l’inizio.
Ma io ci credo.
Perché sono un Casco Bianco, e non sono venuto a farmi un giro.
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