“Non partite con troppe aspettative” è uno degli imperativi che ha accompagnato, da un lato, la nostra partenza per questo paese lontano. Consiglio, augurio, raccomandazione che viene puntualmente disatteso, specialmente, ci vien da dire, in questo caso. Anche volendo, non si può non fantasticare sui tratti del “down under” che è l’Australia, meta ogni anno d’inimmaginabili ondate di persone: giovani, adulti, intere famiglie che bussano alla sua porta alla ricerca di un’avventura, di un’esperienza di studio o di lavoro, di una nuova casa o di un rifugio lontano dalle guerre e dalle sofferenze patite nel paese d’origine.
Siamo nella Casa della Pace di Liverpool, una delle aree più a ovest della città di Sydney, quando, dopo quasi due mesi dalla partenza, ci ritroviamo a fermare alcuni pensieri, a fare un po’ di ordine nel via vai di sensazioni e sentimenti. Non sappiamo esattamente quale aspetto far prevalere, quale meriti maggiore attenzione…perché in quel di Sydney c’è tutto, ma proprio tutto: dietro i suoi simboli costitutivi, come l’Opera House e l’Harbour Bridge, dietro ai negozi che si susseguono ininterrottamente per le vie del centro, i suoi club, le opportunità che promette, il suo volto multiculturale, ci chiediamo se in questa “casa di tutti” qualcuno riesca davvero a sentirsi a casa.
Australia è la gentilezza dei passanti che si avvicinano per chiederti se ti sei perso, se hai bisogno di aiuto, la cordialità degli addetti ai trasporti, che tutti salutano e ringraziano alla discesa, è la disponibilità e la pazienza nel relazionarsi con il diverso, con l’immigrato che non sa parlare la lingua e che cerca di esprimersi con le poche parole che sa (e con i gesti, se è italiano!), è la libertà di espressione, in tutte le sue declinazioni, in tutti gli aspetti della vita. È il considerevole corpus di leggi, norme e regole che è bene seguire, è il disincanto di alcuni giovani che cercando il paradiso, il “sogno australiano”, e scoprono di essere solo in un altro paese, dove per vivere bisogna effettivamente lavorare sodo. È la solitudine nello sguardo di alcuni che incontri in autobus, il bicchiere di troppo, l’ultimo di una lunga serie, dei giovani delle vie del centro rigorosamente nel weekend e del cinquantenne che pronuncia frasi sconnesse sulla via di casa in un qualsiasi giorno della settimana, è la calca nel centro commerciale, che se non stai attento ti ci puoi perdere, è la desolazione nelle strade vuote, la sera. È l’orgoglio con cui i bibliotecari di Liverpool raccontano la storia del loro sobborgo e delle popolazioni aborigene, lo stesso che abbiamo sentito nelle parole di alcuni speaker che ogni domenica pomeriggio, nel Domain, parlano a chiunque passando, voglia ascoltarli. È il sorriso, la pazienza, l’impegno dei volontari della biblioteca, che provano a farci parlare in inglese e non ridono (quasi mai) dei nostri errori, è il senso di accoglienza che sentiamo partecipando a queste lezioni, condividendo con gli studenti di varie età e nazionalità lo spiazzamento e le insicurezze che ci caratterizzano. È il senso di gratitudine, che traspare dalle testimonianze di chi è qui già da un po’, nei confronti di una terra che ha aperto, non senza un motivo, le proprie porte, e che spesso induce a non riconoscerne gli aspetti di criticità. È l’abbondanza di parchi e di aree verdi e tramonti infuocati a cui non ti abitui mai. È tutte queste cose e molte altre che inconsapevolmente e non volutamente avremmo tralasciato…è l’eterogeneità che tocchiamo con mano se raccogliamo un mucchietto di sabbia a Bondi. È un insieme di aspetti che ai nostri occhi spesso convivono ma non si conciliano, non trovano una collocazione sensata, coerente, un collante che gli tenga insieme.
Ma questa non è altro che l’impressione per quanto fermata, immortalata, di due che sono appena arrivate, e che probabilmente hanno capito poco o niente e che hanno solo provato a condividere alcuni flash della loro nuova quotidianità dall’altra parte del mondo.
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