Albania Caschi Bianchi

Quale contributo al sistema Servizio Civile ed al tema della difesa civile non armata e nonviolenta

L’intervento di Ilaria Zomer

Scritto da Ilaria Zomer, Casco Bianco Apg23 a Scutari

La traccia dell’intervento

Per capire l’impatto del progetto caschi bianchi oltre le vendette sul sistema del servizio civile e sulla difesa bisogna forse chiarire che cosa significa l’aggettivo accompagnato costantemente a questo progetto: sperimentale.

Sperimentare ha, nella comprensione comune, sostanzialmente due accezioni:

  1. Sottoporre qualcosa ad esperimento allo scopo di verificarne le caratteristiche, la funzionalità.
  2. Conoscere per esperienza, per prova.

Era giunto il momento di sperimentare e le motivazioni di questa sperimentazione erano due:

1. si cercava di rispondere alla domanda: quali sono le caratteristiche di un intervento non armato e nonviolento? Ma soprattutto, funziona?

2. L’obiettivo era provare un intervento non armato e nonviolento per conoscerlo data l’esiguità di esperienze e l’importanza che l’intervento civile sembra ricoprire in maniera sempre maggiore nei micro e macro conflitti che si sviluppano dentro e fuori il territorio italiano.

L’esperimento di cui abbiamo fatto parte aveva  delle ipotesi:

1. Si può intervenire in modo non armato e nonviolento all’interno di un conflitto violento con efficacia ai fini di una sua risoluzione.

2. L’intervento all’interno di un conflitto violento non è solo appannaggio di una minoranza professionista e armata ma è patrimonio di ogni cittadino secondo il dettato dell’ articolo ? Della Costituzione .

3. I conflitti violenti hanno degli elementi che li costituiscono in comune a prescindere dalla scala in cui si verificano, per questo motivo determinate modalità di azione o buone prassi sono ripetibili in diverse situazioni e tipologie di conflitti violenti.

Ogni esperimento ha un “ambiente” in cui viene realizzato. L’ambiente scelto per la nostra sperimentazione è  l’Albania del Nord, in particolare si è scelto di agire su una tipologia di conflitto violento che gli esperti definirebbero micro-conflitto le cui caratteristiche sono già state illustrate dagli interventi che mi hanno preceduto. Qualcuno ha criticato la scelta di sperimentare un intervento di difesa civile non armata e nonviolenta proprio all’interno di questo particolare conflitto, considerandolo un conflitto sostanzialmente sopito, in cui non sono chiare le parti in lotta, in cui l’interposizione classica non è applicabile, in cui non ci sono morti, insomma per riassumere “In Albania non c’è la guerra”. Senza venire al merito della questione e pur essendo convinta che in Albania vi è guerra, e la lunga scia di morti che quest’estate la violenza ha lasciato sulle prime pagine dei giornali e nel cuore di noi volontari ne è la triste prova, vorrei illustrare come in realtà la scelta di questo particolare ambiente di sperimentazione è stata decisiva e ha contribuito alla verifica delle ipotesi illustrate prima. Gli ordini di motivi sono due:

1. Da sempre si sperimenta in un ambiente ottimale, semplificato, in cui le variabili sono ridotte, dal  particolare ci si muove verso il generale, dal piccolo al grande, dal semplice al complesso.  Si sperimenta in un contesto adeguato alle risorse di cui si dispone, in questo caso 6 volontari in servizio civile, sicuramente invisibili in un conflitto violento su larga scala, invece importanti per circa 50 famiglie che siamo riusciti a seguire quest’anno. I conflitti violenti hanno delle dinamiche comuni e tutti si nutrono di violenza diretta, violenza strutturale e violenza culturale. La gjakmarrja in Albania non presenta differenze da questo punto di vista.  Gli assunti generali che quest’anno sono stati raggiunti si possono applicare quindi ad altri conflitti, in altri contesti.

2. Si potrebbe andare oltre dicendo che i micro-conflitti in altre società ci offrono molti strumenti per imparare a gestire i conflitti nella nostra società. Quindi l’ambiente della nostra sperimentazione ci permetteva di osservare delle situazioni che avevano delle similarità con le tipologie di conflitto che possiamo osservare anche nella nostra società.

Il nostro esperimento aveva inoltre un metodo, consolidato ormai in anni di esperienza di caschi bianchi, di cui le caratteristiche forse più importanti sono state illustrate da chi mi ha preceduto ma che vorrei ricordare:

una presenza basata sull’ascolto, l’osservazione e il discernimento, la riconciliazione come strumento educativo basato sulla relazione, la rete come strumento ed obiettivo di lavoro,

la nonviolenza e l’interculturalità come approcci, la condivisione, il vivere “in mezzo” alla situazione nella quale si vuole incidere, l’esperienza che si fa politica, attivismo, sensibilizzazione e infine il ruolo di antenna per parlare di chi non parla nessuno.

Ancora una volta caratteristiche proprie dell’approccio dei corpi civili di pace, fra di esse nessuna specializzazione che non rientri nel concetto più ampio di umanità e che non si possa ritrovare in cittadini di una società in cui tutti vorremmo vivere.

Il nostro progetto aveva infine un tempo, in un anno non si cambia purtroppo il mondo ma siamo stati parti di un processo più ampio. In questa direzione dovrebbero muoversi i progetti di servizio civile, determinati e limitati nella loro durata ma chiaramente inseriti in un percorso di cambiamento lungo, in una lotta alle ingiustizie, al servizio, come dice la parola stessa, di una società equa, giusta e quindi pacifica.

Veniamo quindi a delle considerazioni sul conseguimento delle ipotesi individuate all’inizio:

riguardo all’efficacia dell’intervento, i miei colleghi hanno citato diversi risultati che abbiamo conseguito con il lavoro di quest’anno, io vorrei raccogliergli in un unico concetto, la sensazione di avere ottenuto dei grandi risultati e che solo alla fine del servizio sono riuscita a riassumere con la parola liberazione: dall’emarginazione sociale, dalla povertà estrema, dall’indifferenza della società, dalla violenza. Questa liberazione è stata sostenuta piano piano distruggendo i mattoni di un muro di isolamento multidimensionale che imprigionava le famiglie in gjakmarrja, ma soprattutto un muro di solitudine. Ed eravamo solo sei. Cosa avrebbe potuto fare un corpo civile di pace?

Arrivando alla seconda ipotesi,  Il metodo che abbiamo utilizzato nel nostro intervento dimostra che la costruzione della pace non è solo appannaggio di pochi professionisti. Sicuramente posso affermare che l’anno di servizio civile, sperimentale, è stato un momento importante della mia formazione di persona e cittadina, ma proprio la sua sperimentalità mi permette di affermare che il mio servizio civile abbia rappresentato, in primordine, una modalità di intervento in cui la presenza di giovani in servizio civile, anziché di esperti funzionari, dimostra che  ognuno di noi può fare la differenza. Questo è uno dei presupposti dei Corpi civili di Pace già immaginati da Alexander Langer, perché la costruzione della pace non può essere dovere di pochi ma possibilità di tutti.

3. Per quanto concerne la terza ipotesi, ovvero la ripetibilità dell’intervento in diversi contesti posso dire che essere elementi terzi ha permesso a noi volontari di osservare il fenomeno dall’esterno e allo stesso tempo diventare oggetti dell’indagine di scoperta degli effetti delle nostre azioni e attività sui beneficiari. Essere osservatori ed osservati allo stesso tempo  ci ha permesso di essere soggetto terzo e di sperimentare appunto ovvero verificare le caratteristiche di un intervento non armato e nonviolento, la sua funzionalità e accrescere la conoscenza, proprio attraverso l’esperienza, tutto ciò è stato possibile grazie al supporto teorico dell’Università di Padova, che con i suoi suggerimenti ci ha permesso di raccogliere materiale e sistematizzarlo per lasciare memoria di questo intervento. Il passo successivo è quindi quello di diventare attori terzi nelle tensioni dei nostri territori e contribuire ad un concetto di difesa della patria che non guarda solo ad una difesa del territorio da ipotetici attacchi esterni ma la difesa delle istituzioni democratiche e dei valori su cui la nostra società si poggia in un contesto di crisi economica e di cambiamenti sociali e demografici che la globalizzazione ci pone di fronte. Questo ci permette di affermare che il progetto, e in generale un modello di servizio civili che punti alla sperimentalità nell’ambito degli interventi civili di pace, possano contribuire ad un nuovo concetto di difesa.

L‘Italia, tra i paesi più all’avanguardia per il suo modello di servizio civile, deve continuare ad impegnarsi nella costruzione di una cittadinanza attiva e nella scoperta di nuovi interventi per rendere la società più giusta e pacifica e l’impegno deve moltiplicarsi proprio in questo momento di crisi economica ma soprattutto dei valori. Il servizio civile può essere un grande laboratorio formativo per i giovani ma soprattutto un laboratorio di intervento non armato e nonviolento nei conflitti, in linea con i valori della nostra costituzione. Un tipo di intervento che risponde ai criteri di solidarietà globale e che deve essere supportato dall’opinione pubblica. Non si può dimenticare inoltre la naturale tendenza del servizio civile di occuparsi di conflitto, motivo per cui è nato come obiezione di coscienza, è quindi naturale che esso rappresenti le avanguardie della sperimentazione italiana al riguardo.

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