Albania Caschi Bianchi

Contesto e descrizione del fenomeno

L’intervento di Elisa Nardelli

Scritto da Elisa Nardelli Casco Bianco Oltre le vendette

La traccia dell’intervento

La vendetta di sangue o, in lingua albanese, gjakmarrja, costituisce un sistema di risoluzione dei conflitti interfamiliari previsto e regolamentato nell’antico codice consuetudinario del Kanun.

Una situazione di vendetta nasce in genere dalla lite tra due uomini che, degenerando in un assassinio, comporta che la famiglia della vittima, sentendosi disonorata, possa decidere di riprendersi il sangue perduto emettendo vendetta nei confronti dei componenti maschi dell’intero fis, o famiglia patriarcale allargata, dell’uccisore. Il fis dell’assassino si trova quindi costretto a chiudersi in casa sia per il rischio di subire una perdita, sia in segno di rispetto per il lutto che l’altra famiglia ha subito.

Tale pratica risulta ancora oggi diffusa soprattutto nel Nord del paese ed, in particolare, tra le persone che provengono dalle zone di montagna del Dukagjin, di Tropojë e della Malësi e Madhe.

In queste aree montagnose, aspre e fortemente isolate, lo stato con le sue leggi ha da sempre faticato ad entrare e la vita pubblica e privata degli abitanti viene, da oltre mille anni, regolamentata in ogni suo singolo aspetto da una serie di norme consuetudinarie, basate su di un  sistema tradizionale di gestione dei rapporti sociali, codificate in forma scritta nel corso del medioevo.

L’arretratezza ormai strutturale del Nord Albania ha radici storiche ed è costantemente alimentata dall’assenza di infrastrutture, in particolare dalla mancanza di strade che impedisce le comunicazioni e gli scambi con il resto del paese, dalla precarietà dei servizi sanitari, da un sistema istruzione debole e lacunoso, dal prevalere di un’economia agricola sottosviluppata e poco produttiva e dalla conseguente diffusione della povertà.

Soprattutto l’isolamento ed il livello di istruzione molto basso creano le condizioni ideali per il mantenimento di una cultura imperniata sul familismo, per cui ad una società civile debole e ad una profonda e radicata sfiducia nello stato fanno da contrappeso unità familiari estremamente forti e coese, e che continua a  nutrirsi degli stereotipi del patriarcalismo e del machismo. La donna mantiene infatti un ruolo di subordine rispetto all’uomo che, invece, accentra ogni compito decisionale e rappresenta l’unico custode dell’onore, concetto attorno al quale ruota tutto il sistema relazionale tra fis.

Mentre, durante la dittatura comunista di Enver Hoxha, il regime era riuscito a sedare, se non addirittura a sopprimere, il ricorso alle regole kanunarie, i disordini degli anni ’90, sfociati, con il crollo delle piramidi finanziarie del ’97, in uno stato di anarchia caratterizzato dal dilagare della violenza e da un uso indiscriminato delle armi, hanno dato nuova linfa al proliferare dei conflitti tra individui ed al ricorso alle vendette di sangue come metodo risolutivo degli stessi. Sebbene, data l’assenza di indagini e statistiche ufficiali, calcolare il numero di persone attualmente coinvolte nel fenomeno delle vendette di sangue non sia un compito semplice, per rendersi conto di quanto esso rappresenti una piaga reale, ancora aperta ed infettante per la società albanese basta riflettere su alcuni numeri. Dall’inizio dell’anno ci sono stati nel paese oltre 20 omicidi per gjakmarrja; oltre 40 sono le famiglie coinvolte nel fenomeno che vivono nelle periferie rurali di Scutari e sono seguite dalle associazioni Comunità Papa Giovanni XXIII e Ambasciatori di pace; una ventina sono invece  le famiglie in vendetta che vengono seguite nei villaggi di montagna di Tropojë. Considerando che il numero di abitanti dei distretti maggiormente interessati non supera i 350.000, si può ben capire come il fenomeno della gjakmarrjia incida significativamente ed in maniera via via più pericolosa e difficile da gestire sulla società.

Oggi, oltre al rischio legato alla diffusione delle vendette di sangue ed al contagio di parti della popolazione tradizionalmente non legate alle norme del Kanun in conseguenza alle migrazioni interne, un problema che rende imprevedibili e complessi gli esiti dei conflitti esistenti è dato dal fatto che le regole del kanun che normano il ricorso alle vendette di sangue non vengono più rispettate. Queste servono, ormai sempre più spesso, soltanto come mezzo per giustificare a posteriori azioni violente e delittuose messe in atto, secondo modalità del tutto arbitrarie, anche nei confronti di quegli individui che secondo il Kanun dovrebbero invece rimanerne immuni (minori, donne, uomini di fede).

Nel corso di quest’anno abbiamo avuto modo di scontrarci in prima persona con l’anarchia con la quale vengono gestite le situazioni di vendetta stando vicino a famiglie che avevano subito l’assassinio di un loro membro nonostante fosse un prete, che hanno subito la perdita di un membro di sesso femminile e per giunta minorenne o che hanno visto perpetrare la vendetta entro i confini di casa quando, secondo il Kanun, la proprietà privata dovrebbe essere inviolabile.

Le conseguenze di quest’assenza di norme e dell’anarchia che sembra governare il dilagante ricorrere della violenza vanno ad aggravare la situazione già estrema delle famiglie che si trovano a vivere in reclusione a causa della gjakmarrja. Di fatto, l’autoreclusione implica il mancato accesso al lavoro e, di conseguenza, una sorta di autarchia economica, per cui quasi tutti i beni indispensabili al sostentamento vengono prodotti in casa grazie allo sfruttamento di piccoli orti e, nel migliore dei casi, di qualche capo di bestiame. A ciò si aggiungono l’inaccessibilità alla sanità ed all’istruzione (limitazioni che incidono negativamente speciamente su bambini e adolescenti) e l’impossibilità di beneficiare dei sussidi e dei servizi statali previsti dalla legge perché, essendo il più delle volte fuggite clandestinamente dai propri villaggi di montagna, le famiglie in vendetta non sono regolarmente registrate nel comune di residenza. La limitazione alla libertà di movimento ed il continuo stato di tensione ed insicurezza generano inoltre una forte incidenza, specialmente tra gli individui di sesso maschile, di sintomi depressivi, nevrosi e alcolismo, che si traducono in un aumento delle violenze domestiche.

Nonostante la situazione delle famiglie coinvolte nelle vendette di sangue sia così complessa e precaria  lo stato albanese fatica ad intervenire in maniera sufficientemente incisiva e responsabile. Proprio la debolezza delle azioni dello stato e l’assenza, a livello locale, di una rete associativa forte rendono necessario un intervento esterno e, nel nostro caso, hanno reso utile ed importante il nostro servizio civile.

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