Città di Scutari. Quartiere di Gruda e re. Anche se non ci è ancora passato il furgoncino di google maps, è un luogo geografico realmente esistente, alla periferia della città, anche piuttosto popolato. E’ in questo quartiere che numerose famiglie provenienti dal Dukagjin (regione montagnosa a nord di Scutari) si sono insediate nella speranza di una vita più adeguata e confortevole. Queste due qualifiche non possono che riportare il pensiero del lettore a standard e metri di giudizio personali.
Cosa è una vita “adeguata e confortevole”? Ho il timore che il pensiero possa portare, rispondendo di getto, soprattutto ad una serie di oggetti e beni. Accanto ad essi, forse ancora più importanti, c’è una lunga lista di servizi che, a seconda del paese e della città, può essere più o meno data per assodata. E’ di questi che proverò a darne un quadro.
Nel quartiere, anche se la toponomastica non esiste, è piuttosto facile orientarsi rispetto agli altri quartieri periferici perché la rete stradale ricorda quelle delle città romane e presenta numerose parallele e perpendicolari. Il quadrato più esterno e la “via praetoria” rimangono asfaltate e le strade interne ancora piuttosto accidentate.
Eravamo appena usciti da una visita ad una famiglia con la quale, ogni giorno di più, stiamo costruendo un rapporto sempre più stretto. Famiglia su cui la vendetta è caduta da poco più di due anni e sulla quale le conseguenze sono assolutamente palpabili. Costretti a vivere in una situazione di assoluta auto-reclusione, il padre ci ha descritto, più volte e nel dettaglio, cosa potrebbe accadere se lui uscisse, o meglio la paura di cosa secondo lui sarebbero in grado di fare i membri della famiglia rivale se lui uscisse. La paura è cresciuta ancora quando, poco più di un mese fa, i suoi timori sono stati confermati e sono stati uccisi due membri della sua famiglia.
Tuttavia, l’impegno quotidiano e la costante speranza di un cambiamento che mettiamo nello stare accanto a questa coppia con i loro tre bambini, ha permesso – per un processo quasi di osmosi – che anche loro si nutrissero di questi elementi. A piccoli passi ed in maniera graduale sembra stiano uscendo – quantomeno con il cuore – dal clima di paura e timore che solitamente regna nelle famiglie sotto vendetta. Ecco dunque che la visita era stata armoniosa e rilassata; in casa c’era anche il vicino, e si era parlato degli argomenti più vari, proprio come in un tardo pomeriggio di un qualunque giorno della settimana. Le porte e le finestre aperte creavano una fresca corrente che ci proteggeva dall’assolata umidità dei primi segni d’estate.
Avviato il motore e salutati tutti con il classico colpo di clacson, non percorriamo più di 100 metri che, dal cortile di una casa vicina, si fa incontro Drita e sua figlia Marje. Anche loro sono state sotto vendetta, ma – anche se oggi libere – la famiglia vive ancora in una situazione problematica per diversi aspetti. Quel giorno Marje sta male, si sente debole, le gira la testa e sembra non riesca a reggersi in piedi, così la madre ci chiede di poterla accompagnare in ospedale. Senza troppi tentennamenti, saliamo tutti in auto e ci dirigiamo verso l’Ospedale pubblico di Scutari. Drita non smette di ringraziarci, ma Marje non sembra riprendersi. La mamma ci dice che è dal mattino che la figlia sta male ma non ci spiega perché abbia aspettato così tanto prima di decidersi a portarla. Il figlio non era in casa e preferiamo non chiederle perché non abbia chiamato lui, se era preoccupata.
Il cielo si era rapidamente volto ad annunciare pioggia, ricoprendosi di nuvole. Arriviamo in ospedale. Per entrarci in auto paghiamo 50 leke ad un ‘custode’, ufficialmente per il parcheggio. La struttura si sviluppa in diverse ali e reparti situati su cinque piani, in un dedalo non semplice di scale interne ed esterne. Queste sono instabili e semi-distrutte, le vetrate sono pericolanti e ad ogni passo che si compie sembra di contribuire attivamente al loro definitivo smantellamento. I muri dei corridoi presentano i segni del tempo e dell’incuria ed è difficile non notare l’intonaco ammuffito e cadente, così come i buchi in corrispondenza di scatole e serpentine elettriche. Consci del classico rimbalzo di reparti decidiamo di chiamare un amico infermiere e, con lui, arriviamo a quello di pediatria. Sulle pareti dei corridoi, insieme alla stampa dei diritti e dei doveri del paziente, sono affisse sbiadite immagini degli uomini e dottori che hanno dato lustro alla struttura, il tutto avvolto da una cupa semioscurità. Qui Marje viene subito fatta sdraiare su una barella. Un viavai lento di personale infermieristico sembra alla ricerca della ‘persona giusta’ per la visita. Dopo averla trovata, il controllo che le viene fatto è blando, formale. Alla mamma, visibilmente preoccupata, dicono che Marje dovrà fare una flebo.
Tuttavia, “il reparto non ha né l’ago, né la flebo”. Deve andarselo a comprare in farmacia.
La mia mandibola si sgancia dalla mascella, in un’espressione tra il livido e l’incredulo, il cuore pulsa forte il sangue al cervello, ma sembra che questo non voglia capire. Solo il nostro amico deve aver notato la mia espressione ed inconsciamente ha risposto a ciò che neanche il mio pensiero riusciva ben a formulare: “No, ma qui a pediatria di solito aghi e siringhe ci sono, è strano; è il reparto messo meglio dell’intero ospedale”. Non faccio domande, non chiedo niente e mi chiudo in un mutismo quasi freddo. Non riesco ancora a capire bene se l’ospedale sia costantemente sfornito di materiali sanitari di prima necessità e se questo dipenda dal fatto che non vengano inviati dal Ministero centrale. Diverse ipotesi si affacciano nella mia testa, ma rimangono sfuocate e confuse. E’ la prima volta che mi trovo in una tale situazione. Ero già stato in vari ospedali di varie parti del mondo e, anche se è un ambiente che non mi fa sentire di per sé a mio agio, ho sempre trovato ospitalità ed un minimo di cure adeguate. Tuttavia, l’espressione di ovvietà sul viso dell’infermiera che comunicava la mancanza e l’altrettanta naturalezza con cui Drita la accolse mi aveva stordito. Mi riprendo nel momento in cui capisco che non restava che prendere il materiale necessario in una farmacia, tutte piuttosto ben fornite, e ritornare in ospedale per la cura. Di una diagnosi sarebbe stato ridicolo preoccuparsi in quel momento.
L’evento non mi aveva messo di buonumore ed avevo sentito il bisogno di parlarne con chi è da più tempo che vive qui. Nel suo volto non colsi sorpresa, ma la calma di chi si era ritrovato nella stessa situazione e si era posto le stesse domande in passato. Sembra che, oltre all’eventuale numero esiguo di invii da parte dello Stato, la penuria di materiale sia dovuta al piccolo mercato nero sorto intorno a questi beni. Il personale ospedaliero vende i pezzi alle farmacie che poi a loro volta le rivenderanno non solo ai clienti, ma anche ai pazienti dell’ospedale pubblico lì vicino. Parte del personale arrotonda lo stipendio, qualche farmacia risparmia pochi leke rispetto ai prezzi dei distributori, e la flebo ritorna all’ospedale esattamente nel braccio di chi aveva bisogno di cure.
Non è comunque la prima volta che ci troviamo di fronte a difficoltà sistemiche quando ci rechiamo negli ospedali. Proprio il mese scorso, avevamo effettuato un altro accompagnamento. In questo caso, era stata una lotta permettere ad un capofamiglia sotto vendetta di ricevere cure adeguate. Sta cercando di disintossicarsi dall’alcol ed in quella occasione stavamo effettuando una prima visita per capire quale poteva essere il modo migliore per accompagnarlo in questa difficile sfida. Le preoccupazioni principali della dottoressa si erano rivolte non alle crisi di panico di Paolin, ma al fatto che, data la sua condizione di ngujuar (inchiodato, chiuso per vendetta), metteva in pericolo la sua vita e quella degli altri andando in ospedale. Senza il minimo rispetto della privacy e senza un po’ di coscienza per evitare di pesare ulteriormente su quella che è tra le condizioni più impossibili in Albania, la dottoressa rincarava la dose sostenendo che non lo avrebbe curato se non in presenza della polizia. Come se lui fosse un ricercato, un detenuto o un assassino. Niente di tutto questo: un uomo, il cui fratello ha ucciso, che porta il fardello di questo evento insieme a tutta la sua famiglia. Un uomo cui vengono rifiutate le cure proprio per questo motivo. E lei, una dottoressa, che non riesce proprio a cogliere l’impercettibile somiglianza tra il morire a casa lentamente dimenticati ed il rischio di essere colpito a morte durante una visita in ospedale.
Così, per mettere in chiaro gli eventi che si erano susseguiti, mi sono messo a scriverli. Non solo per comprenderli sistematizzandoli, ma anche – proprio attraverso questo processo – di coglierne un significato, un insegnamento, un aspetto positivo di crescita. Arrivato qui, alla fine della descrizione, non ho ancora trovato una risposta ai dubbi che intendevo risolvere. Parlandone con una volontaria venuta qui a trovarci per una settimana, mi ha suggerito di che probabilmente avrei dovuto lasciare le domande aperte e condividere con voi queste “piccole bruciature” che si prendono vivendo questo tipo di esperienza. Era una cosa cui non avevo mai pensato, ma che ha riaperto una speranza in me.
Ecco, dunque, che cerco di farvi rivivere quest’esperienza e chiedo a tutti voi di provare a darmi una risposta, a fornirmi nuovo coraggio e capire cosa si può imparare da questa situazione.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!