“Essere donna è così affascinante. È un avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai”. Lo diceva Oriana Fallaci, e seppur le citazioni non mi siano mai piaciute non trovo miglior modo per cominciare una breve descrizione delle donne albanesi. “Breve” perché non sarò mai sufficientemente grande e consapevole di quello che ha reso queste donne il motore di un paese machista che nella storia ha dato loro il ruolo di otri. Infatti secondo l’antico codice di diritto consuetudinario del Kanun di Lek Dukagjin, leggiamo che ”la donna è un otre fatta solo per sopportare” che per alcuni versi ancora oggi conserva una parte di verità, condivisa dall’immaginario comune.
Infatti le donne oggi in Albania devono incarnare lo stereotipo di donna provocante, pronta a soddisfare ogni desiderio dell’uomo, ma allo stesso tempo l’idea che la donna è di proprietà ed affidata alle cure di un uomo è ancora la regola. Camminando per le strade di Scutari, importante centro urbano del nord albanese, si incontrano donne che sembrano uscite dal set di un video musicale camminare di fianco a donne in abiti tradizionali. Le donne non fumano per strada, e c’è distinzione tra club/bar maschili e club familiari dove le donne sono le benvenute e gli uomini possono entrare solo se in compagnia di donne. Mi è anche capitato di vedere una donna che pascolava la propria mucca con una borsetta lucida animalier parlando al cellulare. Ma è stato durante un’attività di superamento del dolore organizzata dall’equipe di Operazione Colomba, con cui come Caschi Bianchi lavoriamo sul fenomeno della gjakmarrja, il luogo dove ho conosciuto la forza delle donne albanesi.
La gjakmarrja è la vendetta di sangue, per la quale, in seguito ad un omicidio, la famiglia del defunto ha il diritto di vendicarsi sui membri maschili, fino alla terza generazione successiva all’omicida, e affida invece alla donna, madre di famiglia, ma anche figlia, sorella, cognata, suocera… a caricarsi di tutte le responsabilità del menage famigliare.
Le donne con cui facciamo questo percorso sono in attesa della vendetta quindi vivono chiuse in casa assieme alla propria famiglia, poiché come segno di rispetto alla famiglia che ha subito il lutto ci si auto reclude. Gli uomini di casa non possono uscire altrimenti rischiano di subire la vendetta e vivono costantemente nella paura e, frustrati, si rifugiano spesso nell’ebbrezza alcoolica. Il sangue delle donne invece non è utile alla presa della vendetta, non vale, quindi l’esclusione dalla vendetta non è un riconoscimento della loro natura ma una mera accettazione dell’inferiorità di genere. Sono così “libere” di uscire per lavorare e mantenere la famiglia, nei campi o con gli animali, ma anche in fabbrica, sfruttate dalle aziende che approdano in Albania per approfittare della manodopera a basso costo.
È da questa quotidianità che provengono le donne con cui condivido questo percorso. Sono donne che si commuovono a sentire l’esperienza di vita di un’altra donna a cui è stata uccisa la figlia in Colombia e ha deciso di perdonare. Con noi sfogano la frustrazione di non poter prendere delle decisioni per il proprio avvenire autonomamente, fra di loro dimostrano una grande comprensione e parlano con una schiettezza disarmante E’ da loro che ho imparato cosa significa “complicità femminile”.
Era il primo incontro che facevamo e una volta avvisate le signore, in anticipo perché potessero chiedere il permesso al marito, terminare il lavoro di casa e affidare i figli alle cure di qualcuno di fidato, andammo a prenderle a casa.
Una di queste signore era preoccupata dalla possibile reazione del marito. Non gli aveva detto nulla perché molto geloso, con qualche problema di alcolismo, e spesso si rivolge a lei con violenza. Nel momento in cui arrivammo lui era fuori casa, da un fratello, così lei decise di venire lo stesso e affidare i figli alla suocera che vive insieme a loro. Durante quel primo incontro si è messa a nudo sulla situazione di inferiorità che vive in casa, e con una frase che esprimeva rassegnazione e forza allo stesso momento disse “Sono venuta perché una volta in più e una in meno che si arrabbia, non fa la differenza”.
Per una volta ha anteposto se stessa alla forza bruta del marito e ha confidato nella suocera, che solitamente prende le parti del marito, ma quel giorno aveva il ruolo di avvisarla nel caso sarebbe tornato a casa. La stessa suocera che tiene l’unico telefonino di casa fra il seno, e quando suo figlio è fuori casa la nuora deve chiederle il permesso di usarlo e spiegare il perché le serva.
Sono queste situazioni che da donna emancipata, figlia della rivoluzione di genere e della libertà d’espressione, mi fanno sentire l’importanza di un gesto come questo che vi ho descritto. Quello che può sembrare un’azione adolescenziale, il non dire la verità al proprio marito, in realtà è il primo seme di una rivoluzione di genere che non è ancora avvenuta. Ma la cosa che mi ha definitivamente conquistata di queste donne è la loro dignità e umanità, che probabilmente le ragazze che ostentano il proprio corpo nella via pedonale di Scutari, forse alla ricerca di un uomo o forse perché ispirate alle icone commerciali e dello spettacolo, non dimostrano.
È la dignità e la femminilità che contraddistingue la differenza di genere che la rivoluzione sessuale femminile ha affermato. E con la stretta di mano, forte e gentile, con la pelle screpolata fino a sopra al polso, a furia di lavare a mano i panni e i piatti, i tappeti e le coperte in qualsiasi stagione all’aperto, senza acqua calda, zappando la terra senza l’aiuto di alcun mezzo che insieme a me anche Vera, Djela, Bieshka, Lena, Pranvera, Dorina, Fatbardha e tante altre costruiamo un sogno. Il sogno di avere pari dignità nella quotidianità, nel lavoro, nell’educazione dei figli, di avere la possibilità di parlare ed esprimere la propria opinione sempre. Una battaglia che solamente queste donne possono portare avanti, per le loro figlie e per un futuro che sia migliore.
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