Sono trascorsi più di quattro mesi dal mio arrivo a Scutari e, fin dal primo momento, l’impressione, immutata, è di essermi affacciata alla finestra di un piccolo mondo abitato da persone tra loro diversissime oppure similissime, a seconda dell’occhio e l’orecchio con i quali le si osserva ed ascolta.
Mille sfaccettature di uno stesso cristallo la cui durezza apparente sembra definitivamente dissolversi nello sguardo fiducioso di uno dei tanti, sicuramente troppi, bambini ngujuar, inchiodati. O in un piccolo gesto affettuoso di un uomo verso la propria compagna di vita, nonostante la stia costringendo, a causa di un errore suo o, ancora più difficile da digerire, di un membro della sua famiglia, alla rinuncia di uno dei pilastri alla base della dignità umana: la libertà.
Già, perché pur di restare a fianco del proprio uomo e dei propri figli, questa moglie e madre ha sacrificato completamente se stessa, annientando qualsiasi aspirazione personale e velleità individualista. Lei, come gran parte delle donne albanesi, si è posta a totale e incondizionato servizio del proprio gregge, spaccandosi la schiena e le mani, il cuore e la mente. Sottomessa e fragile laddove non le è consentito esprimere un’opinione o dei desideri, avere una vita sociale e, spesso, nemmeno un’istruzione, ma estremamente forte, tenace, apparentemente inaffondabile nell’affrontare ogni fatica e ristrettezza, dolore, angoscia, abuso e sopruso che la vita le ha riservato.
Le prime volte in cui si varca la soglia delle case dove questo piccolo mondo sembra compiersi nella sua dimensione più estrema, è pressoché impossibile rimanere indifferenti. Non è tanto l’aspetto tangibile e corporeo della povertà a provocare l’aggrovigliarsi sistematico delle interiora, quanto l’isolamento, la solitudine, il senso di abbandono che si respirano, si toccano, si vedono e si sentono esattamente come fossero cose materiali, concrete, che occupano uno spazio fisico ed hanno un peso specifico.
Le prime volte, ma non solo quelle, è difficile impedirsi di formulare in maniera frenetica e ansiogena tutta una serie di congetture e pensieri da “esercito della salvezza” che poi, a mente un pò più lucida, vengono puntualmente accantonati a favore di idee sicuramente meno avvincenti ma alla lunga più efficaci. Non è nemmeno semplice spiegare alle persone che vivono chiuse in questa bolla di inquietudine che non è possibile, anche se è esattamente ciò che si aspetterebbero, assecondare le loro richieste regalando denaro, o cibo, oppure assicurando il loro ingresso in qualche paese europeo ma, se loro ce lo consentono, potremmo offrire delle occasioni che, seppur semplici, potrebbero diventare per qualcuno uniche e preziose.
Penso in particolare agli uomini. Infatti, nonostante la società, la cultura, la tradizione li vogliano fieri, orgogliosi, il solido pilastro su cui si poggia la famiglia e l’intera nazione, sono i primi ad arrancare, vacillare ed infine cadere rovinosamente trascinando con se nell’oblio dell’emarginazione le creature che dovrebbero invece proteggere e sostenere. Mogli e figli divengono così vittime silenziose della fragilità e del senso di colpa che assillano costantemente e incessantemente questi uomini che, sentendosi responsabili della situazione ma incapaci di risolverla, finiscono spesso con lo sfogare impotenza e frustrazione annegando se stessi e la loro vita in qualche lacrima di raki. Malgrado gli uomini appaiano, in questo senso, i più bisognosi di un’alternativa, di un’opportunità per uscire e liberarsi, per qualche ora, dalla negatività che poco a poco li annienta, sono anche i più difficili da raggiungere. Rappresentano la dimensione più dura da scalfire di quel granitico cristallo che è il popolo albanese.
All’inizio rifiutano qualsiasi proposta gli venga fatta facendo intendere, magari senza usare le parole ma semplicemente con uno sguardo scoraggiato e spento, che per loro nulla di ciò che noi, invasori dell’intimità della loro sofferenza e stranieri del loro modo di agire e pensare, potremmo mai fare si potrà rivelare in qualche modo utile o sensato. Allora bisogna tentare il tutto per tutto per farsi conoscere nella propria essenzialità, cercando di far comprendere che non è nostra intenzione giudicare ma, piuttosto, capire e in parte condividere la loro sofferenza. Succede, così, che ogni tentativo di penetrare la solida corazza di tradizioni e abitudini ataviche nella quale questi uomini trovano un rifugio sicuro contro la minaccia del “nuovo” e del “diverso”, ed ogni sforzo per creare un varco nella rigida barriera di diffidenza e sfiducia nei confronti degli altri esseri umani e della vita in generale dietro a cui essi si sono caparbiamente barricati, si trasformi in una piccola crociata personale volta innanzitutto all’abbattimento dei propri pregiudizi e delle proprie forme di resistenza e inflessibilità.
Soltanto quando si riesce a mettere in atto questa micro rivoluzione interiore si può essere effettivamente in grado di arginare la distanza e spiegare che l’opportunità di trascorrere alcune ore all’aria aperta, lontano dall’ambiente opprimente e claustrofobico di casa, con persone che condividono la stessa situazione, probabilmente non ha lo stesso effetto immediato di un sacco di farina o di un lasciapassare per l’estero ma, sicuramente, può fare meglio al loro spirito e donare all’anima quel pizzico di ottimismo indispensabile a vedere le cose, almeno per qualche istante, da una prospettiva un po’ più luminosa.
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