Hogar è un termine spagnolo difficilmente traducibile in italiano. Significa letteralmente “focolare” ed ha lo stesso significato profondo che ha in inglese la parola home; designa cioè non tanto l’abitazione in sé, quanto tutte quelle accezioni positive che al luogo dove si abita in genere si associano comunemente: pace, tranquillità, sicurezza, relazioni positive. E’ accostabile al termine “casa” solo nelle accezioni previste da espressioni come “essere a casa”, “sentirsi a casa”, mentre l’espressione “focolare domestico”, che forse è l’unica capace di rendere bene questa accezione essendone traduzione letterale, è decisamente in disuso.
E’ curioso notare come una delle condizioni di esclusione più forti presente nella nostra società occidentale venga identificata nelle due lingue pressoché nella stessa maniera: sin hogar e homeless. Questo permette, al solo pensare o pronunciare queste parole, un approfondimento immediato del concetto molto maggiore di quella permessa dalla traduzione italiana più frequente “senzatetto”.
Un breve documento pubblicato online dalla Fundación RAIS, entità che lavora in varie comunità autonome della Spagna a favore delle persone in condizione di esclusione sociale grave, specialmente con la gente de la calle, la gente di strada, parte proprio dal dire cosa non è una persona sin hogar per centrarsi poi su quello che è.
Che cosa, dunque, NON È un sin hogar?
NON È un mendicante, perché solo una minoranza di essi lo è; non è un vagabondo (transeúnte), perché molti di essi sono sedentari e permangono di preferenza in un luogo determinato, seppur spesso precario; non è un indigente, sia perché non tutti vivono in un’indigenza completa, sia perché spesso non sono neanche sin techo, senzatetto nel senso letterale del termine, perché spesso accedono a soluzioni di alloggiamento provvisorio (dormitori, mini-alloggi, camere affittate, pensioni).
Che cos’è? Che cosa accomuna tutte le persone che si ritrovano in strada?
Una prima caratteristica ricorrente è la presenza, nella storia più o meno vicina della persona, di una serie di eventi traumatici: che siano lutti gravi in famiglia, maltrattamenti, indigenza, separazioni familiari o sentimentali, licenziamenti, sfratti. Tutti gravi accadimenti con cui il resto della popolazione si confronta in media 3-4 volte nel corso della vita, ma che nella storia di una persona arrivata in strada si riscontrano concentrati in successioni ravvicinate di 7-8 duri “colpi”.
L’altra caratteristica, che può semplicemente realizzarsi in concomitanza con gli eventi traumatici citati oppure esserne conseguenza, contribuendo sempre però a renderli difficilmente risolvibili, è quella che accomuna e definisce propriamente la persona sin hogar: la mancanza di una rete di relazioni sociali, familiari o amicali. Solitudine che genera spesso disistima, incomprensione da parte della società e senso di invisibilità, e rende spesso irreversibile il fenomeno del sinhogarismo.
Ciò che rende sempre più grave il fenomeno man mano che passa il tempo, racconta chi lavora da tempo a contatto con queste persone, è proprio l’indebolimento dei vincoli comunitari e parentali e la fragilità delle stesse famiglie, tradizionali materassi che aiutavano ad assorbire i “colpi” che la vita poteva, e può sempre dare, a ciascuno di noi.
Ecco cos’è dunque un sin hogar: una persona che si è trovata ad affrontare le durezze della vita e ne è rimasta schiacciata perché privo o lontano da amici, parenti, dalla famiglia. Solo, al freddo, lontano dal focolare.
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