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“Anche noi parte della società” – Incontro in un carcere mozambicano

Un gruppo di giovani che vuole essere vicino ad ogni strato sociale, mosso da una convinzione profonda: “ciascuno ha qualcosa da dare e non solo da ricevere”. Nasce così un incontro, sul tema della fiducia, tra le sbarre di un carcere del Mozambico.

Scritto da Davide Cattaneo, Casco Bianco FOCSIV

“Anche noi siamo persone”, “Anche noi facciamo parte della società!”
Queste parole risuonano nella mia mente dopo il dibattito che noi di “Azione Sociale” abbiamo organizzato sabato scorso con i detenuti del carcere di Maxixe, Mozambico. In tutto 135 uomini, quasi tutti ragazzi (pochissimi superano la trentina), a piedi scalzi e con magliette strappate, seduti davanti a noi con aria tranquilla e incuriosita. Le loro vite ora sono tutte assieme ammassate in tre stanze, in tre celle, le cui dimensioni non sono per niente adeguate al loro numero, costringendoli a dormire per terra, in quattro su ogni stuoia e senza quindi la minima possibilità di muoversi durante il “sonno”. La cella 3 addirittura non ha neanche un bagno e sono costretti ad usare un bidone. Una situazione ancora più estrema se pensiamo all’aggravante del clima africano: quelle tre camerate, un vero forno umano, non forniscono certo un’alternativa al piccolo cortile comune esterno sotto il sole a picco. E durante le frequenti tempeste tropicali? Posso solo immaginare un lago tra i muri, marrone sporco e con dentro di tutto. Mentre loro si fanno largo in questa melma, cercano riparo chissà dove, sperando che almeno di notte la situazione sia più umana. Così, le condizioni igieniche vanno oltre l’immaginazione, tanto è vero che anche la nostra visita è stata posticipata di quattro ore per permettergli di pulire. E i rischi di contrarre malattie si elevano al quadrato in un paese già martoriato da Aids che colpisce in media il 17% della popolazione, malaria, tubercolosi e tante altre infermità.

Il motivo della nostra visita è legato all’attività dell’associazione di cui sono appena entrato a far parte. Si chiama “Azioni Sociali” ed è composta da un gruppetto di giovani mosso dalla volontà comune di tener in considerazione ogni persona, ogni strato sociale. L’incontro-dibattito di oggi rientra nelle attività che quasi ogni sabato ci portano in orfanotrofi, ospedali, asili e comunità in aree remote del paese per parlare, stare insieme, confrontarci e sostenerci in base a un principio unico e fondamentale, quello della reciprocità: tutti hanno qualcosa da dare, oltre che da ricevere.

La tematica del dibattito è la fiducia. “Che cos’è questo valore? Esiste? Qual è la nostra idea? La nostra, di tutti?” Poco a poco qualcuno tra i reclusi si alza e si presenta dicendo solo il proprio nome. Solo uno fa di più mostrandoci delle collanine a cui sta lavorando lì dentro. Sono un po’ timidi nel farsi avanti a parlare ma un accenno di canto li scioglie completamente. Così parte una canzone corale bellissima in un dialetto locale. Tutti cantano. Alternano le voci, battono le mani. Non serve nessuno strumento. Sono più che bravissimi. Il ritmo prende anche me… pelle d’oca e la voglia che non finiscano mai, sono le uniche cose che sento. E forse anche loro, visto che vanno avanti per circa 10 minuti. “Questo è uno dei segreti dell’Africa?” – mi viene da pensare – ”Musica sempre e comunque?”

Quando terminano inizia il vero confronto e ad emergere è la loro forte spiritualità. Tutti concordano sul fatto di trovarsi lì per errori carnali, come li chiamano loro. E che lo spirito è qualcosa di diverso. Quello che alla fine conta veramente. Quello da salvaguardare. In sostanza, lo spirito è la speranza. Quello spiraglio di luce nel tunnel in cui si trovano. Con loro hanno anche una copia del Nuovo Testamento che non perdono mai l’occasione di leggere insieme, nonostante non siano tutti cristiani. Con buona probabilità tra loro ci saranno anche musulmani e credenti di culti locali, poiché tali fedi sono diffuse nell’area con la stessa percentuale. Anche una preghiera li coinvolge tutti, nessuno escluso.

Per spiegare il tema della fiducia molti ricorrono al valore dell’amicizia. “Chi non è venuto qui dentro a trovarmi, non è più mio amico”. “E’ nei momenti difficili che si capisce quando ti puoi fidare di una persona”. “No, non è cosi” – dice un altro – “Uno potrebbe venire a trovarmi anche solo per sapere se sono qua per poi rubarmi in casa”. “Chi ora invece sta aiutando i miei familiari, anche se non mi viene a trovare, è una persona su cui posso contare veramente”. “Eh, si – continuano – le azioni vanno guardate soprattutto per le intenzioni”.

Il confronto è tutt’altro che banale. Racchiude in sé una profondità africana genuina che sarebbe veramente difficile da vivere in condizioni esterne al carcere, in quanto tale realtà non includerebbe la caratteristica più cristallina di questi ragazzi: la volontà mista all’esigenza di aprirsi e dialogare senza convenzioni. E’ un esperienza antropologica autentica.

La conversazione coinvolge tutti, e la partecipazione si manifesta soprattutto con l’ascolto. Nonostante siamo in un carcere i comportamenti non peccano mai di maleducazione. Mai una volta che qualcuno venga interrotto mentre parla, per esempio. Uno ad uno i ragazzi si alzano in piedi e dicono la loro. Parlano perfino solo in portoghese per farsi intendere da noi stranieri. Solo poco prima che ce ne andiamo usano anche un po’ di Xitswa, una delle tre lingue della regione di Inhambane, perché gli ultimi a sconfiggere la timidezza non vogliono perdere l’occasione di esprimersi e lo fanno con il mezzo che più  appartiene loro. “Esiste solo un amico” – dice uno di loro – “Uno solo!”, esprimendo, a mio giudizio, non necessariamente chiusura verso nuovi incontri ma un vero senso dell’amicizia.

Prima di salutarli ci chiedono anche dei libri d’inglese per la prossima volta. Qualcuno di loro li vuole studiare. Abbiamo concordato insieme di far loro visita ogni primo sabato del mese, anche se avrebbero voluto che lo facessimo più spesso. Prima di andare, lasciamo alcune riviste che democraticamente decidono di ricevere attraverso i tre responsabili di cella in modo da condividerle in modo paritario. In segno di saluto intonano un altro canto corale meraviglioso. “Qui in Mozambico la musica non cessa mai!”

Per uscire dal carcere facciamo da soli. Il nostro responsabile mette le mani tra le grate del cancellino e sfila il ferro dal muro. Non c’è neanche l’ombra di un lucchetto! Uscire, scappare: verrebbe loro un gioco da ragazzi! – penso stupito – Tra loro e la libertà ci sono solo cinque metri, una guardia e un’altra porta, tra l’altro già spalancata. Come è possibile?” Invece non solo non lo fanno, ma nessuno sembra neanche prendere in considerazione questa eventualità, vista l’atmosfera rilassata e l’inesistenza assoluta di mezzi per evitarla. E cosa ancora più sorprendente, sono addirittura loro a venirci a chiudere il cancellino.

Qual è questo segreto africano? Sta forse nello spirito di cui parlavano?  Magari nascosto tra la loro quasi impossibilità di lamentarsi e la capacità di non dimenticarsi mai di sorridere?

Appena oltrepassiamo quella prima uscita, vediamo delle donne sedute sul gradino di una porta adiacente anch’essa spalancata. Sono le dieci detenute della sezione femminile. Una di loro ha in grembo un bambino. Rivolgiamo loro un saluto e un attimo dopo siamo già nel mondo esterno. A un certo punto sbuca un giovane che prima si trovava dentro con noi e che, se non è un detenuto, ha sicuramente ottimi rapporti con loro perché mi ricordo di alcuni suoi comportamenti scherzosi. Si dirige dietro la scrivania del poliziotto che nel frattempo sta battendo un documento con la macchina da scrivere, nel 2012! Si abbassa dove c’è un tubo dell’acqua e gira la manopola di un rubinetto. Dopo di che, torna dentro.

Guardo quel tubo, finisce dritto nel cortile dei detenuti ed esattamente dove c’è la cisterna… “E pensare che potrebbe essere la peggiore delle armi di ricatto…”

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