Ciao a tutti,
Vi scrivo sotto forma di lettera perché è questa la modalità con la quale mi è più facile condividere con voi ciò che sto vivendo qui. Qui inteso per Scutari, Albania. E’ un’esigenza, questa, che nasce dalla difficoltà di parlarvi delle tante emozioni provate qui durante questa esperienza di servizio civile all’estero e dalla volontà – allo stesso tempo – di farvi provare anche solo una piccola parte di queste emozioni.
Sono passati già più di quattro mesi dal nostro arrivo nella terra delle Aquile, era Novembre ed iniziavano i primi freddi, siamo ad Aprile e finalmente il sole scalda la natura. Quattro mesi in cui abbiamo instaurato nuove relazioni, abbiamo conosciuto tante famiglie e, soprattutto, tanti ragazzi. Siamo passati dalle iniziali fasi di imbarazzo alla costruzione, piano piano, di un rapporto sempre più profondo. Cerchiamo di stare il più possibile vicino alle persone che seguiamo e spero che poco alla volta riescano a vederci come motivo di cambiamento e rivoluzione. Anche solo organizzare un pomeriggio alla settimana per riunire donne albanesi sotto vendetta, vittime di ogni sorta di abuso e sopruso (familiare, istituzionale, culturale), fa cambiare queste persone: le fa parlare, le fa confrontare, fa raccontare loro le rispettive esperienze. Semplici azioni, che noi tendiamo a dare per scontate, ma piccole rivoluzioni interiori che possono nascere da una semplice parola o da uno sguardo.
Donne, ultimo tassello di questa società. Donne che lavorano la terra, donne che crescono orde di figli, donne che sono il pilastro, donne che, anche davanti al vivere autorecluse, hanno deciso di stare accanto al marito. Donne che forse nutrono ancora una speranza: la libertà per la loro prole, bambini/e e ragazze/i.
E poi. E poi, i mariti. Gli uomini. Uomini che badano al bestiame e fanno i pastori, uomini che si abbandonano alla violenza, che non rispettano, che non ascoltano e che vanno dritti – come muli con i paraocchi. E Uomini che sembra facciano gli uomini e poi se ne fregano dell’onore, trasformandolo in una mera questione economica. Uomini che vanno matti per automobili ed armi, e che poi fumano sigarette slim. Uomini dunque anche loro vittime di stereotipi e logiche che vanno oltre le proprie credenze e convinzioni.
Le settimane che stanno passando offrono sì un grande lascito umano (tanto bello, quanto preoccupante), ma provocano anche overdose di felicità, di emozioni, di adrenalina. I singoli episodi che rimangono impressi nella memoria sono numerosi e singolari ed ognuno di essi è motivo di sorpresa e confusione e, a dirla tutta, anche a metterli in fila non si fa altro che aumentare la confusione. D’altronde questa è la realtà con cui ogni giorno ci confrontiamo: confusa, schizofrenica, e fuori dalla logica. Così, per lasciare anche voi in questo limbo, la affronterò con il gusto dell’aneddotica.
Dagli inseguimenti agli incidenti, dalle risse ai nascondigli.
Un sabato sera di Gennaio abbiamo organizzato un cineforum a casa nostra con alcuni ragazzi sotto vendetta per le 18-18.30: in programma “The Millionaire”. Si tratta di andare a prenderli ed accompagnarli fuori di casa. L’accompagnamento è molto frequente e, spesso, non ci si rende conto dell’importanza e della difficoltà nel farlo. All’inizio avevo un po’ di tensione, ma era più per aver ragazzi in macchina con i quali era difficile scambiare qualche parola e rendergli il viaggio meno teso. Ora abbiamo guadagnato fiducia e li facciamo senza quasi più pensarci. Tuttavia, l’attenzione non è mai troppa.
Quella sera passavo a prendere tre ragazzi sotto vendetta, uno dei quali paraplegico. Saliti finalmente tutti in macchina, ci apprestiamo ad uscire da un quartiere malfamato alla periferia di Scutari, dove la vulgata dice abitino alcune “teste calde”. Strade strette, sconnesse e con voragini che si alternano a sassi aguzzi. Con la nostra Innocenti Elba vado piano e non supero i 30km/h; ad un tratto– dallo specchietto retrovisore – vedo un Mercedes che mi si fa sotto a tutto gas, comincia a farmi i fari e mi sta proprio attaccata. Due scelte: o accosto e mi impantano oppure accelero e me la gioco. Nel mentre la Mercedes continua ad abbagliarmi.
Vedo che non cede e mi partono alcuni pensieri ossessivi.
Primo ragionamento: ‘pensare alla sicurezza dei ragazzi’.
Secondo rapido ragionamento che mi spinge subito a considerare la peggiore delle ipotesi: ‘sono maledetti che ci inseguono per minacciare i ragazzi’.
Terzo e conseguente ragionamento: ‘col cavolo che mi fermo ora che la strada è stretta e rischiano facilmente di chiudermi una via di fuga’. Così decido di accelerare sino ai 50-60 km/h in attesa che la strada migliori e si faccia più larga.
Niente da fare, non cambia niente ed il silenzio all’interno dell’auto inizia a regnare sovrano. Provo a cogliere qualcosa dagli sguardi dei ragazzi, ma nulla, sembrano non riconoscere l’auto. Poco prima del ponte che collega Bardhaj a Scutari la strada si fa asfaltata e si allarga, ci possono passare tranquillamente due auto. Accosto e rallento nella speranza che questi mi superino. Cosa che succede, ma rallentando la Mercedes si ferma del tutto e vedo tre ragazzi al suo interno. Non avendo finestrini elettrici funzionanti, l’unica opzione – se mai mi venisse in mente di chiedere cosa volessero – sarebbe scendere dalla nostra affezionatissima Elba. Cosa che non mi sembra proprio il caso di fare.
Mi immagino di tutto:
da una retro ad 80 km/h per allontanarmi e seminarli nei vicoli di Bardhaj
a questi che scendono armati ed io che faccio da scudo al ragazzo al mio fianco,
da questi che scendono ed io che scappo nascondendomi nell’oscurità della macchia
a questi che scendono armati ed io che non ci sto e mi lancio a tutto sul loro Mercedes rosso, speronandogli la macchina e scappando a tutta birra proprio come i Blues Brothers.
Invece i tre ragazzi dopo essersi fermati un po’ davanti, probabilmente anche loro confusi dalla corsa ed ignari del perché io non li avessi fatti passare subito, son ripartiti. Ovviamente mi son segnato il numero di targa della macchina ed altrettanto ovviamente – avendo poi nuovamente incrociato quella macchina – ho fotografato mentalmente la faccia dell’autista e non la scorderò più.
Alla fine solo una gran-paranoia ed un grande banco di prova per controllare la mia reattività.
Ci spostiamo tanto, facciamo tanti chilometri su strade di ogni tipo, e con mezzi di ogni tipo. Tra le varie città che bazzichiamo c’è Tirana, sia perché c’è una Capanna di Betlemme che accoglie senzatetto, sia perché alcuni parenti di famiglie che seguiamo vivono in quella città, sia perché c’è l’unico aeroporto dell’Albania.
Era proprio all’aeroporto che stavo andando. Una domenica mattina di Febbraio, dopo il primo e unico sabato sera a Tirana, ci rechiamo a Rinas. L’aereo è alle 7 del mattino e non ho dormito molto: dopo una colazione con panino e cappuccio siamo tornati alla Capanna alle 4 e mezza, 40 minuti di sonno e via si riparte col furgone verso l’aereoporto. Emiliano ci accompagna e a partire siamo io, Valentina (una volontaria che era stata qui una settimana) e Laura (responsabile di progetto che tornava in Italia per laurearsi). Sulla grande strada a tre corsie per senso di marcia che c’è per uscire dalla capitale ci supera a tutta velocità una BMW X5 che – nel sorpasso – ci scheggia lo specchietto del furgone. Partono gli insulti e con essi gli abbaglianti in direzione dell’auto, che non accenna minimamente a rallentare o a fermarsi. Tra lo stupore e lo sbigottimento, continuiamo a seguire la BMW con lo sguardo. Lontano da noi ormai 6-700 metri, si accinge a superare un altro furgone. Nella fase di rientro dal sorpasso e con una mossa difficilmente comprensibile, la BMW inizia a ribaltarsi sul lato sinistro della strada, costeggiata da un canale di scolo.
Uno.
Due.
Tre.
Quattro ribaltamenti sul fianco ed il quinto, ultimo, lo fa saltando dal retro al muso della macchina e finisce a testa in giù nel canale, con l’asse centrale della macchina spezzato e dritto in alto a mo’ di portabandiera. Scena allucinante alla quale rispondiamo fermandoci e decidendo di tirarli fuori. Accostiamo, la BMW ha il tetto ben piantato per terra e le ruote che ancora girano per aria. Perde benzina che va ad inzuppare direttamente i vestiti dei malcapitati che abitano il veicolo. Emiliano li prende dalla macchina e li trascina fuori dal mezzo, io li tiro su lontano dal canale e li metto a bordo strada. Non ho idea di quanta gente ci sia.
Il primo è una maschera di sangue, ed anche i vestiti sono completamente fradici . Lo faccio sdraiare per terra e gli metto a posto le gambe. Mi sa che una delle due è rotta. Intanto, Laura e Valentina hanno chiamato la polizia e l’ambulanza. Dopo averlo messo a posto, il tipo mi chiede subito di prendergli il cellulare dalla tasca. E’ albanese, ma parla anche italiano. Gli dico di stare calmo e di rilassarsi. Lo tranquillizzo dicendogli che abbiamo già chiamato le autorità. Lui continua e spinge per il cellulare, ed io gli dico “Ma che cosa ci devi ora fare con il cellulare?”. E lui mi fa: “Devo chiamare un amico”.
‘A posto stiamo’, mi dico. Anche qui la mia fantasia inizia a regnare sovrana: hanno rubato l’auto, sono strafatti, hanno l’auto piena di droga, son mafiosetti con dodicimila precedenti, sono armati, hanno organi nel portabagagli, …
Cerco il cellulare nelle tasche del suo giubbotto e mi vengono fuori lattine di bibite energizzanti e sigarette zuppe di benzina. Ha un blackberry ma anche la faccia completamente ricoperta di sangue. Consapevole che nelle sue condizioni non riuscirà a chiamare nessuno, lo lascio lì con il suo cellulare tra le mani ed inizio a tirare fuori la seconda persona in macchina. Questo deve essere l’autista, vestito per bene, non sembra ferito ed ha solo un occhio un po’ nero. L’incidente non gli ha fatto cambiare la faccia arrogante che si ritrova e dovrebbe ringraziare i diciotto airbag della macchina se è ancora integra. La stessa cosa non vale per il primo che invece starà rimpiangendo il non essersi messo la cintura di sicurezza. Scavando nella macchina, scopriamo che sono in quattro, e ad eccezione di un altro che ha la gamba insanguinata, anche l’ultimo, come l’autista, sembra stare piuttosto bene.
Nel frattempo, è arrivata la polizia. Polizia che inizialmente non ci vuole lasciar andare via, polizia che poi ci dice che dobbiamo caricare i feriti e portarli noi in ospedale e che è sorda ed incapace a gestire la cosa. Noi non ci stiamo, gli spieghiamo la dinamica, gli diciamo che abbiamo un aereo da prendere e che non possiamo permetterci di fare il lavoro che dovrebbero fare le ambulanze ed il personale medico.
Decidiamo di toglierci da questa situazione assurda (inizia veramente a farsi tardi e rischiamo di perdere l’aereo), ma non prima di aver preso il numero della targa della BMW per evitare eventuali imprevisti.
Così gli altri vanno sul furgone ed io mi aggiro intorno ai 4 tipi ed i poliziotti che discutono. Non capisco bene di cosa, ma gli animi si fanno accesi (Emiliano ha riacceso il furgone).
Sbircio la targa e vedo che il guidatore vuole strappare dalle mani del poliziotto il suo cellulare. Stava chiamando rinforzi? Faceva accertamenti? Non lo so. (Emiliano è ormai al mio fianco e mi fa cenno di saltare al volo e di andarcene). Ma tira che tira che tira, cosa vuoi che non succede? Non ci crederete, ma scatta una rissa tra i tipi appena tirati fuori dalla macchina ed i poliziotti. Salgo sul furgone in movimento, e – allontanandoci in direzione aeroporto – mi godo la rissa dallo specchietto laterale.
Eccovi un piccolo spaccato di un paese, dove la legge fatica ancora a trasformarsi in comportamento. Dove sembra che né il popolo né lo Stato abbia interesse ad applicarla e dove le emozioni (paura, dolore, tensione, rabbia) si trasformano facilmente in violenza. Dove è il comportamento violento a fare da sfogo all’incapacità di gestire le emozioni.
Nel marasma di caos, violenza ed anarchia che regnano, seppur nascosti dalla ingombrante e forte presenza di uno pseudo-stato di diritto moderno ed occidentale, ho anche una buona notizia da segnalare. Ovviamente le buone nuove vengono fuori da storie che hanno dell’incredibile.
Ecco il prologo: domenica scorsa, in un paesino al confine con il Montenegro, due uomini si sparano in un bar ed uno di loro ha la peggio, perdendo la vita. Storie del passato che risalgono a circa 15 anni fa, quando il defunto pare avesse rapito e costretto a sposare una delle sette sorelle dell’assassino. Chiamiamola Pranvera.
Pranvera era costretta a vivere nella casa dei suoceri e subisce abusi e violenze. Nella caciara che ne era nata, il defunto si era macchiato di un omicidio ed era stato condannato a 13 anni di carcere. Dopo un po’ di anni, l’assassino ed alcuni altri membri maschi della famiglia di Pranvera, decidono di riprendersi la sorella e così sarà. Uscito dal carcere, pochi mesi fa, il defunto non ci sta e provoca in ogni modo l’assassino, facendo nascere battibecchi e risse.
Risse che poi sfoceranno nell’omicidio e nel ferimento di un altro uomo in uno dei bar del villaggio.
Questo è quello che ci racconta una suora della zona che ci ha chiamato per aiutare la famiglia e le sorelle dell’assassino che ora rischiano la vendetta.
Vivendo in un villaggio sperduto sui monti, l’autoreclusione è praticamente un suicidio di lungo periodo, spalmato nel tempo. Ci rechiamo in questo paesino inerpicato sulle montagne per parlare con la famiglia che si è autoreclusa e ci chiedono di aiutarli a nasconderli. Smuovendo mari e monti, riusciamo a trovare posto per una sorella e due suoi nipoti di 13 e 16 anni. Ottima reazione ed ottimo successo in vista del guadagnarsi la fiducia di questa famiglia.
Con questo, ho concluso. Tre piccoli aneddoti per farvi comprendere cosa sto vivendo. A questi vanno aggiunti gli abbracci ed i sorrisi dei ragazzi e dei bambini. La felicità di vederti stampata nel loro volto, le parole che ogni tanto gli saltano fuori e che ti fan capire che non tutto è vano, che azione genera reazione – sempre e comunque.
Questa è l’Albania. Paese di cuore, “di panza” e di sostanza. Paese dove in alcuni angoli non è ancora arrivato l’asfalto, ma nei quali puoi comodamente prelevare da un bancomat; paese che sembra procedere a passo di gambero, dove la complessità del nostro tempo la fa reagire andando a cercare nelle tradizioni e nel passato quella campana di vetro sotto la quale rifugiarsi.
Qui sto vivendo, e qui vivrò per un anno.
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