Scritto da Redazione Antenne di Pace

Il fenomeno delle Vendette di Sangue trae il suo fondamento nell’antico codice consuetudinario (Kanun), raccolto e fissato in forma scritta a fine ‘800 dal padre francescano Stefano Costantino Gjecov, che codifica la versione del condottiero albanese Lek Dukagjini risalente al XV secolo.
Il Codice, nel suo insieme, norma numerosi aspetti della vita quotidiana (il sistema familiare, le relazioni interpersonali e quelle economiche, l’ospitalità, l’onore e la vendetta). Diffuso in modo particolare nel nord del Paese e, trasmesso in forma orale, fissa un insieme di comportamenti tradizionali rendendoli norma di regolamentazione della vita civile (mores), che nel corso degli anni ha garantito l’ordine e la coesione sociale in assenza di un potere pubblico forte che se ne facesse carico.
Per questo motivo all’atto dell’indipendenza del Paese, conquistata all’inizio del ‘900 era ancora presente. Durante la rigida e pervasiva dittatura comunista il Codice è sopravvissuto in maniera informale e alla caduta del regime, caratterizzata dai descritti periodi di vuoto legislativo ed istituzionale, nonché dal notevole disordine sociale e dalla violenza, è tornato in auge, in particolare nelle parti legate alla “vendetta di sangue” (Gjakmarrja).
Nel codice non viene elencata una casistica dettagliata dei tipi di delitti a causa di cui si avvia tale pratica, ma si sottolinea come il sangue (l’omicidio) vada pagato col sangue.
All’interno del Rapporto ONU del Consiglio dei Diritti Umani (A/HRC/14/24/Add.9) del 2010 relativo all’Albania, si fa esplicito riferimento al fenomeno, descrivendo anche la dinamica con cui ha inizio una vendetta di sangue. A titolo esemplificativo si sottolinea come essa si origini con una
discussione, solitamente tra due uomini le cui famiglie sono vicine o amiche, che può nascere da causa diverse: un incidente (stradale o di altro tipo), un insulto percepito, un disaccordo sul possesso della proprietà (soprattutto terriera), un conflitto sull’accesso all’elettricità, acqua o combustibile, una mancanza di rispetto nei confronti di una delle donne del gruppo familiare, l’accusa di mentire. La discussione degenera in scontro fisico e un uomo uccide l’altro. La famiglia della vittima sente che quello è “sangue dovuto” dalla famiglia dell’assassino. Questo debito e la relativa perdita d’onore possono essere vendicati togliendo la vita a chi lo ha compiuto o a un parente maschio appartenente al suo gruppo familiare (fis), fino al terzo grado di parentela, con l’esclusione delle donne e i bambini.
L’unico modo per non subire la vendetta è l’autoreclusione in casa propria, luogo ritenuto sacro e inviolabile nel corpus del Kanun.
La modalità di emissione della vendetta non è più strettamente codificata, ma la famiglia di chi provoca una morte sa che può esservi sottoposta. I contatti tra le due famiglie in questa fase sono tenuti da figure riconosciute come autorevoli e “super partes” quali i baracktar (riconciliatori tradizionali) o le figure religiose istituzionali. In molte persone però il “sistema delle vendette di sangue” è talmente radicato che l’auto – isolamento è mantenuto anche quando non ci sono minacce specifiche o tentativi di assalto dalla famiglia che ha emesso vendetta di sangue. La famiglia isolata presume possibile un attacco, se l’altra famiglia non le offra una besa (una tregua, data come patto d’onore). Spesso sentono che, in assenza di quest’ultima, l’onore richieda loro di mantenere l’isolamento, anche se non c’è stata una concreta minaccia.
Da parte di chi emette vendetta di sangue il suo compimento è considerato una sorta di obbligo morale e la sua non realizzazione è motivo di disonore e disapprovazione di fronte alla collettività.
Nella sua evoluzione moderna l’esistenza delle vendette di sangue sono diventate, a volte, la giustificazione ad una reazione cieca, spinta dal rancore personale, che compensa le lacune della giustizia formale. Questo ha portato allo stravolgimento di alcune “regole” del Codice come il divieto di colpire le donne e i bambini, costringendo intere famiglie a vivere recluse.
Formalmente il Kanun è stato abolito ma senza una riforma tale da prevederne una transizione dalla consuetudine al sistema giudiziario statuale. L’omicidio commesso per motivi collegati alle vendette di sangue è punito con pene da 25 anni all’ergastolo. Tale previsione, viste le lacune del sistema giudiziario albanese evidenziate anche dal rapporto dell’UE, spesso rimane solo sulla carta, anche per la complessità nel provare il reale movente del delitto.
I dati ufficiali riguardanti il fenomeno sono lacunosi e tendenzialmente ne sottostimano l’entità. Le statistiche governative sul fenomeno riportate dal già citato rapporto Onu evidenziano un crollo costante degli omicidi per vendetta di sangue passate dalle 45 del 1998 ad una registrata nel 2009, mentre il numero di bambini isolati varia da 36 a 57 in ambito nazionale, dei quali tra 29 e 45 sono a Scutari (une delle aree di intervento del progetto). Le famiglie in isolamento si stimano essere tra le 124 e le 133 nell’intera nazione.
Le stime della società civile riconoscono la diminuzione delle uccisioni per faida di sangue e stimano che attualmente si trovino in isolamento non più di 350 famiglie e tra gli 80 ed i 100 bambini su scala nazionale. Lo stesso rapporto ONU riconosce la scarsa accuratezza dei dati statistici forniti dal Governo. La diminuzione del numero delle uccisioni è da porre in relazione anche alla confusione dei termini utilizzati nei rapporti delle forze dell’ordine, dove non sempre risulta chiaro (o non si è in grado di specificare) se gli omicidi siano riconducibili a semplice vendetta o a vendetta di sangue.
Rispetto a questi dati, per conoscenza diretta, l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, è in contatto con oltre 50 famiglie in vendetta di sangue (per un totale di circa 250 persone, di cui circa 100 sono minori) nella sola area tra Scutari e Lezha, a cui vanno aggiunte almeno 30 famiglie (per un totale di circa 150 persone) che vivono sulle montagne a Nord del paese.
Numeri di questo tipo sono confermati dai contatti di Caritas Italiana, che attraverso il proprio partner, l’ Associazione “Ambasciatori di Pace”, ha relazioni con le famiglie di circa 30 bambini sotto vendetta di sangue, con i quali realizza le attività di scolarizzazione.
Il silenzio e l’isolamento che circonda le famiglie sotto vendetta di sangue favorisce una sottovalutazione del problema, sia da parte delle istituzioni che dell’opinione pubblica. Difficilmente vengono attivati servizi che possano rispondere ai bisogni delle famiglie in autoreclusione, né vengono promosse azioni che contribuiscono a superare il fenomeno. Questa indifferenza di fondo, unita alle incertezze del sistema giudiziario formale consentono il perpetuarsi e il diffondersi di conflitti violenti e non controllabili.
Al fine di promuovere una migliore conoscenza del fenomeno l’associazione Ambasciatori di Pace ha realizzato recentemente un’analisi del contesto
territoriale, in particolare della realtà dei bambini reclusi e della portata culturale di questa menomazione della libertà individuale. Inoltre, ha
collaborato con la Caritas Albania per la realizzazione di uno studio sulle condizioni dei giovani che vivono sotto faida, presentato in una conferenza nel dicembre del 2009.
A completamento di questa azione di sensibilizzazione sul fenomeno l’associazione degli Ambasciatori di Pace ha creato una rete di giovani delle comunità rurali sparse nella regione della Zadrima, che in collaborazione con le strutture amministrative locali e della Chiesa assicura interventi a supporto dei soggetti coinvolti, utilizzando le modalità ritenute più idonee allo specifico ambito culturale.
Il territorio su cui interviene il progetto è costituito principalmente dalle province di Scutari e Lezha. Sia nelle aree urbane e periferiche, che nell’ampia zona rurale della Zadrima, compresa tra le due città, è particolarmente diffuso il fenomeno delle famiglie che vivono “të ngujuar”, “tappate in casa” perché contro di loro è stata emessa vendetta. Una ulteriore area di intervento è quella delle Alpi Albanesi, a Nord del Paese (Dukagjin, Tropoja…), zona nella quale il fenomeno delle vendette di sangue è profondamente radicato sotto il profilo culturale e dove risiedono sia famiglie “sotto vendetta”, sia famiglie che hanno emesso vendetta.
Le famiglie sotto vendetta di sangue subiscono differenti privazioni riconducibili alla violazione di alcuni diritti fondamentali dell’uomo ovvero a forti discriminazioni nell’accesso a questi ultimi. In particolare:
– l’esistenza e il meccanismo stesso delle vendette di sangue minaccia l’ incolumità e la sopravvivenza dei componenti del nucleo famigliare sottoposto a vendetta e viola i diritti previsti all’art.3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”).
La condizione di auto reclusione, quale diretta conseguenza dell’emissione delle vendette di sangue, è causa di una forte limitazione o privazione della libertà di movimento a causa del rischio di subire possibili azioni violente e pertanto impedisce il godimento dei diritti previsti all’art. 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato”).
Da questa primaria violazione, causata dalla condizione di reclusione, discendono ulteriori violazioni:
– per gli adulti viene disatteso il diritto al lavoro, come sancito dall’art.23 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego”);
– non è garantito il diritto alla salute e ad una esistenza dignitosa come previsto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani all’art. 25 (“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”) in quanto le famiglie non possono accedere ai servizi sanitari e sociali e spesso si trovano a vivere in situazioni di indigenza per la difficoltà ad ottenere fonti di reddito, considerate l’impossibilità di accedere al mercato del lavoro;
– ai minori viene negato il diritto all’educazione previsto dalla Dichiarazione all’art. 26 (“Ogni individuo ha diritto all’istruzione” (…)
“L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.”) perché la condizione di reclusione cui sono sottoposto preclude la possibilità di frequentare i normali corsi scolastici.
Da quanto detto si comprende come un intervento orientato ad intervenire direttamente alla radice della situazione conflittuale (la relazione tra famiglie che hanno emesso e famiglie che subiscono la vendetta), lavorando per le riconciliazioni, ha come conseguenza il venir meno della violazione primaria (la limitazione di movimento causata dall’autoreclusione) e faciliterebbe la tutela dei diritti violati in conseguenza dell’ auto reclusione.

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