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Bangladesh Caschi Bianchi

Il conflitto irrisolto nelle Chittagong Hill Tracts

Le CHT sono una regione del Bangladesh composta da isole dove i popoli indigeni Jumma sono vittime dell’alienazione delle loro terre e di altri abusi. La politica di occupazione ha dato origine ad un conflitto durato per decenni. I recenti attacchi ai villaggi Jumma confermano che la situazione per i tribali non e’ migliorata neppure a seguito dell’accordo di pace del 1997

Scritto da Maria Luisa De Martino Casco Bianco con Apg23

Per oltre trent’anni, gli indigeni Jumma hanno subito oppressione, controllo militare, gravi violazioni dei diritti umani- soprattutto massacri, detenzioni arbitrarie, esecuzioni extragiudiziarie- e land grabbing. Gli attacchi violenti ai loro villaggi da parte dei settler bengalesi tuttora continuano [1] mentre le autorità sembrano incapaci di prevenire e punire i responsabili di tali abusi.
La disputa sulla terra e la minaccia di assimilazione hanno fornito i presupposti del lungo conflitto nelle Chittagong Hill Tracts (CHT) tra i “coloni bengalesi”, sostenuti da Dacca e i gruppi tribali. Le CHT costituiscono un’area strategica, data la vicinanza all’India e alla Birmania e alla ricchezza in termini di risorse naturali [2], in primis foreste.

Attualmente nelle CHT vivono almeno tredici gruppi etnici discendenti dei cinesi-tibetani, con tratti somatici simili ai mongoli, di religione buddista, hindu, animista o cristiana. Tra questi i principali sono i Chakma, i Marma e i Tripura. Gli altri sono: Murong, Tanchangya, Bown, Pankho, Chak, Khyang, Khumi, Lushai, Mro e Rakhain. Rispetto alle  tribù che vivono al confine del West Bengala -Santal, Oraon, Os,  Munda e Rajbansi- quelli nelle CHT sono più isolati e mantengono una cultura molto particolare. Tra gli stessi gruppi delle CHT ci sono rilevanti differenze a livello linguistico e di organizzazione sociale, anche se di solito vengono definiti collettivamente “Jumma” a causa della loro tecnica di rotazione delle colture, detta jhum.
La costituzione del Bangladesh, adottata nel 1972, non riconosce formalmente come “indigeni” questi gruppi né accorda loro uno status particolare. [3]

A partire dal regime pakistano i Jumma hanno dovuto fare i conti con vasti programmi di sviluppo [4] e di occupazione che hanno causato la perdita delle terre ancestrali. Di fatti parallelamente all’aumento delle attività di settlement, industrializzazione e coltivazione estensiva, le restrizioni sul possesso della terra nei confronti degli outsider sono state progressivamente smantellate [5] e le terre comuni degli indigeni convertite definitivamente in terre di proprietà statale o privata.
La politica di occupazione perseguita in maniera più sistematica dal governo bengalese [6]- allo scopo ufficiale di contenere le spinte secessionistiche delle popolazioni native- ha portato ad una guerra civile durata venticinque anni.
Il Parbatya Chattagram Jana Samhati Samiti (PCJSS) e la sua ala militare, lo Shanti Bahini, hanno organizzato e guidato la resistenza e la guerriglia contro i coloni bengalesi e le truppe governative.
Al momento, le comunità tribali non posseggono solitamente nessun terreno, ma spesso lavorano e vivono sulle terre comuni di proprietà del governo centrale, tra cui i “village common forests”.

Il conflitto nelle CHT ha prodotto spostamenti forzati e ondate di profughi [7]. La situazione degli sfollati è particolarmente drammatica: molti rimangono dispersi in posti remoti e inospitali, soprattutto altipiani e foreste, privi dell’assistenza medica e con livelihood ridotte. Anche se gli aiuti sono incrementati negli ultimi anni, molti donatori internazionali hanno legato l’assistenza all’implementazione dell’accordo di pace del dicembre 1997 [8]. In assenza dunque di progressi in tal senso, mancano aiuti adeguati alle popolazioni colpite, mentre informazioni aggiornate ed attendibili sui bisogni sono scarse, a causa di una presenza sul campo molto limitata. Altrettanto tragica è la condizione dei rifugiati Jumma in India. L’unica significativa assistenza proviene dal PCJSS, dal momento che generalmente le autorità indiane negano l’accesso ai campi profughi alle agenzie umanitarie.

L’accordo di pace, oltre a prevedere il sostegno ai rifugiati e agli sfollati, tiene conto di altri punti parimenti indispensabili per una soluzione pacifica e duratura del conflitto nelle CHT, ossia l’evacuazione delle truppe militari e delle forze paramilitari; il rafforzamento delle istituzioni locali- in termini di autonomia e risorse da amministrare attraverso il nuovo Hill District Council e il Regional Council; l’istituzione di una Land Commission per gestire la riallocazione delle terre confiscate ai tribali nel corso del conflitto armato; infine, l’amnistia e la riabilitazione per i guerriglieri dello Shanti Bahini.
Il governo della Awami League, con la premier Sheikh Hasina, ha intrapreso una serie di misure positive per dare attuazione all’accordo, ma molte questioni cruciali restano da affrontare.
Innanzitutto la restituzione della terra ai tribali [9]. Ad oggi, il lavoro della Commissione speciale incaricata di risolvere le controversie sulla terra ha incontrato mille difficoltà, anche a causa dei limiti dell’accordo di pace. Quest’ultimo non chiarisce se ai coloni spettano misure compensative a seguito dell’espropriazione, né tantomeno specifica i nuovi diritti di accesso alle risorse naturali per i tribali e il resto della popolazione.

Finora è mancato un piano serio per assistere i rifugiati e una tabella di marcia per procedere al  loro rientro.
Infine, preoccupa la mancanza di una politica capace di scongiurare una grave crisi idrica e il disastro ecologico nelle CHT [10].


[1] Il 27 aprile scorso AsiaNews riportava uno degli ultimi attacchi ai villaggi Jumma nel distretto di Khagrachari: oltre duecento abitazioni erano state date alle fiamme, causando decine di feriti tra i tribali e la scomparsa di una quarantina di studenti universitari. (http://www.asianews.it)

[2] Gli altopiani della regione sono ricchi di risorse naturali: oltre al legname c’è una buona varietà e quantità di piante medicinali, frutta, bamboo e gas. Mentre quest’ultimo viene estratto nel Bandarban e nel distretto di Khagrachari Hill, ad  Alikadam si estrae petrolio ed esistono riserve di  carbone a Lama.  In ogni caso, lo sfruttamento di queste risorse finora è stato piuttosto basso proprio a causa della difficile situazione politica.

[3] Recentemente si sta procedendo alla revisione del testo costituzionale per introdurvi la tutela delle minoranze etniche (khudro jonogosthi) anche se è assai probabile che nessuna di queste ultime verrà riconosciuta come indigena (adibashi). Un avanzamento, invece, in tal senso potrebbe contribuire senz’altro aiutare i Jumma a far valere i loro diritti nel territorio delle CHT. (http://www.bdnews24.com/details.php?id=196924&cid=2)

[4] Uno dei casi più emblematici è quello della diga Kaptai realizzata tra il 1957 e il 1963 grazie soprattutto ai fondi dell’USAID, l’agenzia di sviluppo statunitense. Questa diga ha inondato il 40% delle terre coltivabili e provocato lo spostamento di oltre 100 mila tribali. Dalla costruzione del mega impianto per l’energia idroelettrica, il governo pakistano ha incoraggiato molti bengalesi a stabilirsi nella zona.
Survival International Italia, “Il ritorno delle grandi dighe: una grave minaccia al futuro dei popoli indigeni”, Rapporto 2010, pp. 10-11.

[5]
Durante il dominio inglese per i non tribali era difficile avanzare diritti sulla terra, in quanto vi erano particolari norme, fissate nel CHT Regulation-1900, che regolavano l’accesso e l’insediamento nelle CHT, così come i trasferimenti.

[6] Al 1979 risale uno dei maggiori programmi di occupazione. A ogni famiglia, musulmana povera e/o senza terra, che si stabiliva nelle CHT le autorità di Dacca offrivano 5 acri di terreno nelle zone collinari, 4 acri nelle zone più vicine alla foresta e 2,5 acri nelle superfici coltivate. Ciò avveniva con l’aiuto dell’esercito che progressivamente fissava delle basi militari nell’area.
Guro Mjanger, “The Land is not ours: alienation of land rights of the Jumma in the CHT, Bangladesh”, Institute of Social Studies: The Hague, the Netherlands, November 2008.

[7]
Nel  2000 la task force istituita dal governo per supervisionare il processo di riabilitazione stimava tra gli indigeni 60 mila sfollati (internally displaced persons) e altri  60 mila rifugiati, soprattutto nello stato indiano del Tripura. Oltre 400 mila bengalesi, a partire dall’inizio del conflitto nel 1973, avrebbero colonizzato le CHT. (http://www.internal-displacement.org)

[8] Nel 1988 sono stati avviati per la prima volta dei negoziati. Solo nel 1997 si è arrivati all’accordo di pace tra il governo di Dacca e rappresentanti dello Shanti Bahini e del PCJSS. Quest’ultimo insieme all’UPDF (United People’s Democratic Front) è il principale partito politico dei Jumma.

[9] Come presso altre comunità indigene, la terra rappresenta un patrimonio di cruciale importanza per l’identità culturale, il potere politico e la partecipazione ai processi decisionali.

[10] Nella regione si registrano livelli allarmanti di erosione del suolo, deforestazione e perdita della biodiversità.

Per approfondire, si suggerisce: Rahman M. Ashiqur, “Chittagong Hill Tracts Peace Accord in Bangladesh: Reconcilling the Issues of Human Rights, Indigenous Rights and Environment Governance”, Dhaka, 2006.

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