• Famiglia del Kilometro 7 (Castanhal, Parà, Brasile)

Brasile Caschi Bianchi

Ricordi dall'”Invasao do padre”

Le famiglie che oggi vivono al kilometro 7, ricordano le giornate che nel 2005 portarono allo sgombero dell’occupazione “invasao do padre”

Scritto da Rosilane Caproni, Casco Bianco a Castanhal

Dal quotidiano “O Liberal”:
Castanhal – Circa cinquecento persone, ieri mattina, sono state sgomberate da una forza speciale della polizia militare da un terreno occupato e sottratto ad una sconosciuta congregazione religiosa (Movimento Providentino) al km 2 della strada PA-136 alla periferia di un comune del nord est del Parà. Il territorio era conosciuto come “invasao do padre”. Tra gli sgomberati c’erano più o meno centoventi bambini e qualche neonato.
Era di muratura la struttura di più della metà delle centoventi case distrutte dagli uomini ingaggiati dai sacerdoti Jonas e Djalma della chiesa cattolica, per sgomberare il territorio che era occupato da più di due anni.[1]

Oggi la testimonianza di alcuni che quella mattina di sei anni fa furono protagonisti.

I primi a raccontarci sono Manuel e Anilde.

Manuel: “Tutto è iniziato così… abbiamo conosciuto una persona che ci ha fatto la proposta di comprare una baracca in questa occupazione. Sul momento non ho pensato di comprarla”.

Anilde: ”Mi piaceva molto l’occupazione perché era quasi in centro, vicina a tutto. Così dopo pochi mesi abbiamo deciso di andare ad abitare lì. Siccome il terreno era della chiesa, davo per certo che nessuno ci avrebbe mai sottratto la nostra casa.
Alle 6 di quella mattina una vicina urlò che erano arrivati i militari insieme a dei carcerati ( anch’essi assoldati al prezzo di uno sconto di pena) a distruggere la nostra casa. Quel momento per me fu uno shock, una tristezza e molta rabbia”.

Juliana (figlia della coppia): “Mamma mia quanto ho pianto quel giorno, altro non mi restava da fare. Mi sono sentita umiliata peggio di un cane”.

Gean (figlio della coppia): “Sono arrabbiato con i preti, hanno fatto troppo male alla mia famiglia”.

Manuel: ”Sappiamo che eravamo in errore, ma non pensavo potessero agire in questo modo”.

Sul loro futuro dicono:

Manuel: “Vivendo ora al Km 7 siamo felici, però le cose che abbiamo passato non le abbiamo ancora superate. Vivere qua al km 7 è molto difficile perché è lontana da tutto e soprattutto da dove lavoro”.

Juliana: “Oggi io sogno di comprare una casa, perché ho una figlia a cui non voglio far passare tutto quello che abbiamo passato noi”.

Quello che segue è invece il racconto di quel giorno fatto da Sira e Aldenir.

Sira: “In quel quartiere ci riunivamo quando il nostro leader (Wanderson Gemak) aveva notizie da riportarci rispetto al processo.
Un giorno alle sei del mattino mio marito stava uscendo per andare a lavoro. In quel momento ha sentito degli scoppi e mi ha chiamato per andare a vedere cosa stava succedendo fuori dalla nostra casa. Sono rimasta shockata quando ho visto la polizia con i cavalli e con le armi in mano. Ho avuto paura, la prima cosa a cui ho pensato è stata mia figlia. Sono andata ad abbracciarla forte ed ho iniziato a piangere. L’avvocato dei preti (Eder Mendes) che si occupava dell’incartamento, ogni tanto ci portava delle informazioni sul processo dicendoci che tutto era fermo. In realtà mentiva, sapeva di star vincendo.
Quando ho comprato il terreno dell’occupazione, in realtà era già in mano di un occupante”.

Aldenir: “Ero disperato, senza sapere dove andare con la mia famiglia. Il poliziotto ci ha dato dieci minuti per portare via tutto quello che c’era nella nostra casa. Il Sindaco aveva già mandato un camion per prendere le nostre cose, anche lui era già a conoscenza di quello che ci sarebbe successo. Mi sono arrabbiato ancora di più”.

Sira: “Quando il vescovo ci ha dato l’opportunità di vivere nei locali sotto la cattedrale, io e altri occupanti lo offendemmo perché non credevamo che lui non fosse a conoscenza di quello che stava per succederci. Siccome la Diocesi lo riguarda non credevamo che lui fosse al di fuori della cosa. Siamo rimasti per quattro mesi nella cattedrale. La cattedrale era ancora in costruzione e per questo mia figlia si ammalò a causa delle polveri respirate. Andammo allora a vivere da mia cognata”.

Aldenir: “La dignità di un uomo si è ridotta. Ho visto che dovevo uscire da questa oppressione perché in quanto essere umano io ho una dignità. All’inizio sono rimasto triste e deluso perché non mi aspettavo che la chiesa che frequentavo agisse in questa maniera. Ho percepito che la Chiesa è sporca come la politica. Oggi non ho rancore. Solo ho una storia da raccontare”.

Sul loro futuro dicono:

Sira: “Oggi vivo in una casa di cui ho la certezza che sia mia ed ho scoperto qua al Km 7 l’amore con i miei vicini. Mi sento più matura. Oggi so dare più che ricevere. Ringrazio Dio per aver portato la mia famiglia in questo quartiere e aver vissuto questa storia”.

Così invece racconta Benedita, una di quelle tante mamme il cui sposo è andato via lasciandola sola a crescere i propri figli.

Benedita: “Tutto è iniziato quando ho cambiato la mia casa legale in periferia con quella nell’occupazione, per poter facilitare la vita alla mia famiglia. Per otto mesi io e la mia famiglia abitavamo solo in una stanza che era cucina, sala e camera. Per guadagnarmi da vivere io e mio marito abbiamo aperto un piccolo commercio nella nostra casa. Quando è comincia a circolare la voce che saremmo stati sgombrati, il nostro leader ha convocato una riunione urgente in cui ci ha comunicato che non saremmo stati sgombrati e che il nostro avvocato sarebbe riuscito a vincere la causa. Ci diceva questo per non preoccuparci.
Un giorno alle sei del mattino ho visto tanti cavalli della polizia e anche tanti detenuti che erano stati fatti arrivare dalla prigione forniti di taniche di benzina, martello, ascia, motoseghe e falci.
In quel momento, traumatizzata, ho chiamato subito mio marito. E gli ho detto con dolore che la polizia ci stava aspettando. Ci erano stati dati dieci minuti per raccogliere le nostre cose, altrimenti loro sarebbero entrati comunque e avrebbero pensato loro a “conservare” le nostre cose.
La prima persona a cui ho pensato è la mia mamma, poiché avevo due figli piccoli e non sapevo dove andare. Qualche ora dopo che era stata distrutta la mia casa è arrivato il vescovo Don Carlo Verzeletti. Ci ha riuniti per dirci di andare ad abitare sotto la cattedrale.

Tre ore dopo ho scoperto che ero incinta e in quel momento ho pensato che la mia vita fosse finita. Ero disperata. Piangevo giorno e notte. A peggiorare la situazione mio marito beveva moltissimo ed era molto assente dalla vita familiare. Eravamo io e la mia figlia sempre soli. Ho abitato nella Cattedrale per undici mesi. Ho trascorso la mia gravidanza con preoccupazione e  nei momenti di disperazione vivevo con il timore di perdere mio figlio. Quando il Vescovo ci ha informato che ci avrebbe aiutato nella costruzione delle nostre case mi sono sentita sollevata da un grande peso.

Per me vivere nella Cattedrale per undici mesi da un lato è stata un benedizione di Dio, dall’altra è stato un disastro. Vedere i miei vicini litigare per il cibo, mi faceva sentire sempre in tensione, con paura… in poche parole era un inferno.

Oggi sto bene, e anche i miei figli. Riesco a lavorare nella scuola del Km 7 come cuoca. Mi sento nelle grazie di Dio. Nel quartiere dove vivo ora ho degli amici che mi aiutano tantissimo e per questo non lo lascerò mai. Qui c’è tutta la mia nuova vita.”

Nello stesso articolo di cui sopra il vescovo dichiara:

[…] “Chiedo la preghiera di tutti, e come Vescovo di questa nuova chiesa diocesana, prometto di continuare a impegnarmi perché la pace e la concordia penetrino in tutti i luoghi della vita umana. Che la misericordia e la saggezza di Dio ci riempiano di ardore fraterno e di zelo fraterno per la vera giustizia cristiana”. [2]

Da tutte le testimonianze sembra che un poco di quella pace augurata dal Vescovo sia sbocciata.

La comunità del Km 7 è una comunità che si aiuta e cerca di vivere quell’amore fraterno.

La strada intrapresa sembra quella giusta, ma al momento siamo al settimo kilometro di un percorso lungo non si sa quanto.

Note:

[1] Quotidiano “O Liberal”, 9 novembre 2005, trad. dell’autore

[2] Ibidem, trad. dell’autore

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