Bolivia Caschi Bianchi

Oltre il muro dell’evidenza

Troppa contraddizione tra la difficile vita per le strade dell’immensa La Paz e il suo moderno centro, ma non si perde la speranza che grazie alla comprensione e all’interpretazione di quella realtà, grazie alla riscoperta di quanto di umano abbiamo dato per scontato e tralasciato, gli stereotipi possano essere superati e le diversità possano incontrarsi.

Scritto da Elena Tassone, Casco Bianco Apg23 nel 2009

“Se la terra scomparisse e rimanesse solo la Bolivia, tutti i climi e tutti i prodotti della terra si ritroverebbero qui. Per la sua altezza, il suo clima, per la sua infinita varietà di caratteristiche geografiche,

la Bolivia è come la sintesi del mondo.”

Alcide d’Orbigny

Ho letto che qualcuno ha descritto la città di La Paz come un cielo capovolto. Verso sera il tramonto fa la sua quotidiana magia: le prime ombre sfumano i profili delle povere case di El Alto che abbracciano la città, accendendo le migliaia di luci come in un’immensa volta stellata, mentre la prima luce del giorno illumina i 6000 metri delle cinque cime dell’Abuelo de poncho blanco, nome rituale del perennemente innevato Illimani, dio tutelare della città. Capitale economica di un paese conservatore, parte di una realtà ricca e complessa, affascinante quanto brutale, immersa nell’incanto di spettacolari paesaggi andini.
Le persone per la strada di questa immensa città camminano e camminano, alla volta di interminabili percorsi, sotto il sole cocente dei 4000 metri, sotto la pioggia violenta e incessante, tra l’aria frizzante e lo smog pesante. Con il capo coperto da bizzarri cappelli, con il viso bruciato dal sole nel duro lavoro del campo e dall’attivo commercio, stanchi di alzarsi presto con le prime luci dell’alba e di ritornare con il freddo e il buio della sera. Tutti a passo lento, sembrano accarezzare l’asfalto e sullo sterrato sollevano quella leggera polvere appiccicosa. Pare quasi una danza tanto naturale da confondere i gesti rendendoli maestosi, musicali, coinvolgenti come quelli dei numerosi balli tipici, protagonisti delle fiestas tradizionali e antiche, dove tra alcool, foglie di coca e riti alla Pachamama, si trasformano in strumenti per calarsi in una dimensione collettiva, trasgredire le norme, infrangere le gerarchie sociali arrivando all’effimera liberazione.

Per le strade dei quartieri dalla profonda vocazione commerciale, di giorno donne e bambini mendicano, smarrendo la loro dignità, insieme alle norme di civilizzazione, dimenticando rispettivamente di essere donne nella loro femminilità e bambini nella loro innocenza, parlandosi in lingue “ostiche” ancora presenti come l’aymara e il quechua. La gente li guarda e li addita come quei “loro”, portatori sani di una malattia ignorata o che si cerca di occultare. Quei “loro” sono persone comuni, forse un po’ “diverse” solo perché appartenenti a un mondo chiamato “terzo”, lontano dal “nostro”, solo perché non possiedono tutto quello che “noi” possediamo, inclusa la libertà e la possibilità di scegliere. Quella malattia si chiama impoverimento.

Di contrasto giovani coppie, forse troppo giovani, che in comune hanno “solo” un figlio, ovvero la più grande benedizione della vita. Passeggiano, spendono, vestiti alla moda, costantemente accompagnati dalla musica a tutto volume e dalla leggerezza della giovinezza, dalla fuga dalle responsabilità, non si differenziano dalla massa di adolescenti che vivono la vita senza affrontarla. Ancora uomini distinti camminano frenetici, con la loro 24 ore e lo sguardo assente di chi per abitudine e senza entusiasmo viene travolto da un nuovo giorno. Si fermano all’improvviso davanti a una cassetta di legno e a una figura accovacciata lungo la strada. Allungano con indifferenza e quasi fastidio un piede guardando all’insù. Cosi si mette all’opera quella figurina tutta cupa, sporca di nero per lucido da scarpe, sottomessa e rigida seduta per terra. Pulisce con spazzole, lucida con crema e in pochi minuti termina il suo lavoro. Ecco il paio di pesos boliviani e neanche un sorriso, una parola di cortesia. Questo è il lavoro ripetuto svariate volte al giorno dai lucida scarpe, dal volto coperto con una cuffia nera in lana con fessure solo per gli occhi, cosi da non poter esser riconosciuti.

E ancora donne, conosciute come cholite dalle lunghe trecce nere corvino, pettinatura ereditata del colonialismo, sulla cui testa troneggia l’inseparabile cappello a cilindro, nascoste sotto ampie e colorate gonne a pieghe dalle quali spuntano caviglie quasi sproporzionate rispetto all’immensità della loro figura, aspettano pazientemente sedute agli angoli delle strade esponendo sui loro coloratissimi aguayos odorosi cibi, frutta tropicale e impensabili oggetti, accompagnate da assonnati neonati.

Simboli questi forse della tanto bramata fecondità, di benessere fittizio, di alimentazione sregolata, di questa Bolivia che, impastata di tradizioni e folklore di quella cultura indigena così ricca e forte da aver potuto sopravvivere all’impatto con il vecchio mondo, in parte mantenendo la propria singolarità in parte fondendosi con la nuova cultura in un originale meticcio, sembra però rinunciare all’emancipazione. Una società promiscua, disinteressata, tribale, eterogenea, patriarcale, caotica, statica, zoppicante, emblema di una politica inesistente, di un ordine dimenticato, di case abusive, di strade polverose, di aiuto offerto da persone o enti caritatevoli, di paura, di notte infinita e fredda, di porte sbarrate, di filo spinato, di cocci di bottiglia sopra i muri di cinta. È uno stare fuori dal sistema per tutto e in tutto, senza l’immediata possibilità di rientrarvi. Quel sistema tanto lontano e inaccessibile che sembra quasi un miraggio.

Quando faccio ritorno a casa a sera dopo una giornata passata in compagnia dei ragazzi della comunità terapeutica nella mente ho l’immagine quegli occhi troppo arrossati di giovani affogati nell’alcool e nella droga, di quei visi troppo innocenti, con quei vestiti troppo rattoppati, di quelle voci troppo flebili per chiedere comprensione, di quelle mura troppo spoglie di case troppo piccole per famiglie troppo numerose, di quelle strade di terra percorse da ragazzini troppo sballati, di quelle macchine troppo vecchie guidate da uomini troppo sinistri, di quei carri troppo scassati trainati da cavalli troppo stanchi, di quei kioschi troppo piccoli per quella troppa merce, di quei cassonetti troppo stretti per quella troppa spazzatura, di quell’odore troppo forte per quelle narici troppo abituate. C’è tutto e manca tutto. Tutto sotto un cielo indistintamente azzurro. Lo stesso cielo che copre i grattacieli del centro, le immacolate mura attorno alla piazza Murillo, i sicuri barrios della Zona Sur, gli enormi shopping, i curati giardini delle ambasciate. Tutto troppo. Troppa contraddizione tra la difficile vita per le strade dell’immensa La Paz e il suo moderno centro, tra un bambino che vive per la strada con la sua intrinseca violenza e un bambino di città che vive senza sapere nulla di quanto lo circonda. La stessa alba che vede la città svegliarsi e iniziare il suo quotidiano ritmo lento, illumina il futuro vago di quelle persone che si guadagnano la giornata con lavori umili, che si ritrovano con una casa che è la strada, di quei giovani che si accasciano sotto l’effetto dell’alcool, di quei bambini che entrano nelle scuole con le loro uniformi colorate. Lo stesso tramonto che vede la città colorarsi di infinite luci e iniziare la sua vita notturna al ritmo di cumbia, e il ritrovarsi delle famiglie nelle sicure e comode case, vede negli oscuri barrios periferici, le serrande abbassarsi, le porte di case in cui difficile è immaginarsi tanta violenza e mancanza di rispetto, chiudersi davanti a strade che diventano impercorribili perché dominate da droga, alcool e paura.

In tutto ciò non si perde la speranza che qualcosa possa cambiare, che qualcosa si possa fare, partendo dall’idea che il primo e fondamentale traguardo è far sì che in qualcuno possa maturare l’intenzione e la propensione a cambiare la propria precaria realtà, aiutandolo prima di tutto a comprenderla. Ci si rende conto di quanto un sorriso, una parola di conforto, un lavoro ultimato assieme o la semplice condivisione di un momento di silenzio possano fare molto. Si arriva a comprendere che la riscoperta dell’umano passa proprio dai semplici gesti di amore che spesso mettiamo da parte, diamo per scontato o ai quali non diamo il giusto peso. Abituati come siamo ad aver ricevuto tutto e a poter ottenere tutto ci scordiamo di cosa siano veramente i sentimenti, i valori e le piccole attenzioni che fanno bene al cuore più di qualsiasi medicina.

Per queste ragioni e infinite altre l’offerta di aiuto, l’incontro con culture diverse, l’eliminazione di stereotipi, sono indispensabili per operare in queste difficili situazioni, per aiutare queste persone a comprendere la loro deprivazione e i problemi sociali che investono la loro nazione. Ci si rimbocca le maniche e si vive ciò che viene dato da vivere.

Questa è il mio modesto articolo. Questo è il mio viaggio oltre il muro dell’evidenza. Questa è senza dubbio una tra le migliori esperienze di vita. Ora è compito vostro fermarvi a riflettere.

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