La storia dei 33 minatori è prima di tutto una gran storia di sopravvivenza (con finale felice) che è stata ascoltata e guardata in tutti gli angoli del mondo. Le vite di duro lavoro e sacrificio dei minatori, la tecnologia di punta usata per portar a termine l’intervento di recupero, la solidarietà della gente, sono stati il minimo comune denominatore di questa storia. La forza umana che non lascia nulla al caso ha permesso di mostrare un altro volto di questo paese in cui le ferite lasciate dal terremoto e dal maremoto sono ancora aperte. Nella lunga attesa, dal momento in cui si à scoperto che i minatori erano in vita fino al momento del loro salvataggio, la gente ha conosciuto in dettaglio quello che stava accadendo. Abbiamo imparato a riconoscere l’immagine implacabile della T130 rompendo le rocce con i suoi martelli intimidatori. Abbiamo visto ministri di stato salire e scendere dalla capsula Fenix provando il suo funzionamento. Abbiamo visto i preparativi per ricevere i minatori. Abbiamo avuto costante informazione rispetto al loro stato di salute, a come si organizzavano per passare il tempo, a come si aiutavano reciprocamente (…) Abbiamo visto tutto questo e di più. Troppo chissà. Come era prevedibile, i mezzi di comunicazione hanno privilegiato l’epopea del salvataggio alla realtà, senz’altro meno attraente, delle precarie misure di sicurezza che scandiscono i giorni di cento e mille di lavoratori e lavoratrici cilene. Nel caso della vicenda di San Josè è calato il silenzio sull’inefficienza degli organi tecnici: la direttrice del Lavoro in carica nel 2001 dichiarò che non fu possibile chiudere la miniera a causa di pressioni provenienti dal settore minerario, confessando, implicitamente, la sua impossibilità di ricoprire con autorevolezza l’incarico che rivestiva. Lo stesso silenzio è calato sulle responsabilità della classe politica che, nonostante le riforme dei governi democratici degli ultimi 20 anni, ha potuto alterare solo parzialmente il modello del diritto
individuale del lavoro. Sono infatti fracassati tutti i tentativi di promuovere un diritto collettivo, strangolando in questo modo la libertà sindacale e impedendo, di fatto, l’associazione a un 90% di lavoratori/trici. La maggior parte dei lavoratori cileni, infatti, continua a esse in balia della propria (in) capacità di negoziazione individuale, quella che viene sigillata dalla celebre quanto cinica frase “qui non si obbliga nessuno”. Chissà se l’esperienza della miniera di San Josè, che ha scandalizzato e commosso il mondo, servirà per infrangere la rigidità di un sistema di relazioni lavorative dove si antepone la produttività senza controllo al valore della vita umana e la giusta retribuzione per i frutti del lavoro svolto … per leggere il testo integrale vedi documento allegato.
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