Dopo due intensi mesi di formazione in Italia, mi trovo in Castanhal, una di quelle città da documentario sulla vita dei paesi in via di sviluppo.
Castanhal è una cittadina di centocinquantamila abitanti che dista 70 km dalla grande capitale dello stato del Parà: Belem.
Sono finito all’Equatore forse più con l’idea di vivere la vita del volontario missionario che quella del casco bianco, nonostante la molta formazione e l’idea che in qualche modo ognuno di noi si era cercato di costruire di questo particolare status.
Sono arrivato quando ormai era quasi Natale e l’assenza del freddo, dei cappelli rossi, delle vetrine cariche di luci, quasi non mi dava nemmeno la sensazione che fossimo in quel periodo di festa tanto celebrato dal consumismo e dalla religione.
Purtroppo all’inizio i paragoni con quello che si è appena lasciato vengono spontanei. A Castanhal si trova tutto, o quasi, quello che si trova nei nostri negozi. Mi colpisce non trovare i libri facilmente reperibili da noi. E comincio a immaginare quale sia il livello culturale.
Guardandomi un po’ intorno riesco a capire che nel bene e nel male la musica, il calcio e la televisione giocano un ruolo importante nella cultura paraense. Tra le cose nuove ai miei occhi spicca la presenza di molti bar e delle cosiddette lunchonette. Posti dove ci si ferma per uno spuntino veloce. Sono i luoghi preferiti dai paraensi che non hanno lavoro (e non sono pochi!). Allora il passatempo è quello immancabile della birra e della cachaça, una grappa, già dalle prime ore del mattino.
Alcool e droga saranno il leitmotiv del mio “servizio”. Un poco nella casa del rientro e un poco nella Comunità Terapeutica. La “Resurreçao”, inserita in un angolo di paradiso naturale della foresta amazzonica a pochi km dalla città è il posto in cui passo la maggior parte del mio tempo. Il ritmo della giornata è scandito da una campanella che avvisa degli orari e delle attività terapeutiche previste dalla casa.
Un poco perplesso e preoccupato inizio, non cogliendo bene come potrò essere antenna di pace e quali situazioni di conflitto mi troverò davanti. Lì mi sporco le mani nel vero senso della parola. Lavoro la terra come gli altri e sono contento perché capisco che mi sto guadagnando la fiducia delle persone con cui vivo. Oltre alle attività lavorative, ci si diverte. Le sere ci sono i giochi dell’infanzia: il fazzoletto, il tiro alla fune, la tombola, i mimi, gara di canti ecc… Si ritorna bambini nonostante l’età siano ben lontane da quel periodo. Si cerca così di smontare il nostro ego tanto gonfio da non permettersi di sentirsi un poco ridicoli e fare i giochi dei bambini. Ma soprattutto ci sono le relazioni. Infatti, non si tratta solo di dettare uno schema per uscire dalla droga, ma di creare delle relazioni con persone che come unico affetto riconoscevano la droga. Con qualcuno si riesce meglio, con qualcun altro meno, ma in ogni caso sento di entrare nelle vita delle persone accanto a me.
Dimitri, mio responsabile, mi mostra a pochi giorni dall’arrivo che vicino alla comunità terapeutica c’è una discarica, realtà di miseria, povertà ma anche di droga e alcol. In tanti lavorano su mucchi di spazzatura aprendo i sacchi uno per uno e dividendo plastica ferro cartone. Lo fanno per guadagnare qualcosa in più dell’irrisorio salario minimo che si guadagnerebbe facendo altri lavori. Anche qui però per resistere a questa vita il supporto è cercato in qualche sostanza psicogena, che non lasci troppo tempo alla mente di pensare.
Mi è sembrato chiaro l’invito a fare qualcosa. Lì, mi è sembrato di vedere il conflitto strutturale in cui mi sarei dovuto impegnare. Se avessi voluto conoscere quel posto, se avessi voluto sapere cosa si vive, se avessi voluto capire da dove arriva quella diseguaglianza sociale lo avrei potuto fare solo standoci dentro.
Così ho fatto, insieme a un altro volontario. Il nostro intervento non è stato risolutivo, ma sento che in qualche modo abbiamo aiutato quelle persone a evadere dalla monotonia e per una volta a discutere di temi che non scadessero nel superficiale o volgare. Sicuramente anche i loro stomaci e il loro spirito sono un poco più pieni del pane e del caffè offerto dopo la mensile messa realizzata dentro la discarica stessa.
L’esperienza è così forte che è impossibile non raccontare. E vedo che qualcuno ascolta. Continuo nella speranza che qualcuno abbia voglia di sperimentare, o dare continuità, uscire dal proprio orticello, se non altro perché apprende ad apprezzare la propria vita.
Nella vicina città, passeggiando per le strade del centro e non, si incontrano i senza fissa dimora. Con un gruppetto di brasiliani vicini alla Chiesa li andiamo a cercare due sere alla settimane per dar loro qualcosa da mangiare e soprattutto da chiacchierare. Più entri nelle loro storie più si scopre che, anche tra di loro, per la maggior parte, il ricorso a droga o alcool fa parte della quotidianità.
Qualcuno accetta di entrare alla Resurreçao (per i quali esiste una “corsia preferenziale”), qualcun altro preferisce andare avanti così. Tutti hanno chiaro che quei due giorni si mangia e che se ci fossero altri tipi di bisogno (consulte mediche, medicinali, vestiti, strumenti per lavorare, biglietti per reincontrare la famiglia), lì c’è qualcuno che ascolta senza far pesare su il macigno del giudizio.
Ancora di più sento di essere dentro quel mandato che mi è stato affidato prima di partire. Non sto più parlando di ingiustizie sociali per sentito dire. Ne parlo perché le ho conosciute e da dentro ne posso fare una disamina più attenta. L’esperienza che ormai mi appresto a finire di vivere è stata piena e mi ha posto davanti a un ulteriore conflitto taciuto.
Parlo del “Americano”. Una struttura residenziale carceraria a cui è associato questo strano nome che in realtà sarebbe il nome del paese in cui è situato. Sono tre strutture, due delle quali destinate a normali detenuti e la terza per chi ha problemi psichiatrici. Purtroppo, oltre alle persone con problemi mentali, vi si trovano reclusi i criminali usuari di droga, pur non essendo la droga un problema psichiatrico. L’ ingiustizia è ancora più grande se si considera che potenzialmente quello è un carcere a vita. Infatti il sistema prevede che per uscire dal carcere si superi una perizia fatta ogni tre anni. A chi ha storia di droga alle spalle difficilmente viene fatta superare. Ciò significa potenzialmente un carcere a vita cadenzato dalla visita di un perito che ogni tre anni ti viene a trovare per farti rimanere in carcere. Anche in questo caso mi sono trovato dentro un conflitto che più che conoscere, raccontare e alleviare con qualche piccola attività, al momento non posso.
Solo ora, dopo una serie di disavventure burocratiche per ottenere un visto e poter rientrare in Brasile, mi rendo conto di cosa ho fatto quest’anno e di quale potere potenziale ho nelle mani.
Sono stato realmente un’alternativa alla difesa della patria con le armi. Ho promosso il bene comune. Quello che ogni popolo dovrebbe avere indipendentemente dalla singola forma di governo, e che, se esistesse, permetterebbe a nessuna nazione di trovare buoni motivi per fare o difendersi da una guerra.
Come sarebbe il mondo se la difesa della Patria fosse fatta da tutti in questo modo? Come sarebbe visto il nostro Paese se impiegasse più volontari in servizio civile all’estero? Penso solo alla forza del vincolo costruito con molti dei miei compagni di viaggio, e penso a quale forza sarebbe se moltiplicato per un numero maggiore di volontari. Perché il corpo civile non sia più solo il titolo di un progetto, ma una reale forza rivoluzionaria nonviolenta che promuove il bene comune ovunque.
Vorremmo ritrovarci tutti, nel 2011, nuovi e vecchi caschi bianchi, accomunati da esperienze forti più o meno lontane. Spero sia l’inizio di una nuova esperienza di cittadinanza attiva a difesa del bene comune.
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