Alessandro Mossini è il fondatore dell’associazione “Filo di Juta”, che dal 2001 opera in Italia e in Bangladesh per la promozione e la realizzazione di progetti di cooperazione e sviluppo. Lo abbiamo incontrato nella sua casetta di Chalna, un villaggio nel sud del paese.
A quando risale la tua prima esperienza in Bangladesh?
Ho fatto il mio primo viaggio nel ’98, con alcuni amici. Allora mi guadagnavo da vivere come cuoco, e non immaginavo di certo che sarei finito a lavorare qui, ma ero incuriosito da questo paese tanto lontano e di cui si sa molto poco. Feci un giro di ricognizione con l’intento di avviare alcuni progetti, poi conobbi la comunità Papa Giovanni XXIII, che stava costruendo una missione nel villaggio di Chalna, e mi interessai alle loro attività. Ho passato un po’ di tempo nella loro struttura, poi ho preferito allontanarmi per avviare un progetto mio, di impronta laica. Quando tornai in Italia io e gli amici che erano stati in Bangladesh con me fondammo il Filo di Juta, che è una associazione di promozione sociale.
Qual è il modo di operare dell’associazione?
Abbiamo diversi progetti attivi al momento, seguiti parallelamente dallo staff italiano e da quello bengalese. Io seguo di persona i lavori qui in Bangladesh, coordinando il personale operativo, e torno in Italia solo un paio di mesi all’anno, mentre Lorena Sghia, presidente dell’associazione, si occupa di organizzare eventi e manifestazioni per promuovere i progetti e raccogliere fondi in Italia. Recentemente, per esempio, c’è stata la due giorni Tutti i colori del mondo, durante la quale si sono svolte manifestazioni sportive e concerti. È stata un’occasione importante anche per prendere contatti con altri enti e associazioni… il networking e la promozione sono fondamentali per far conoscere alla gente ciò che si sta facendo. Durante questi eventi organizziamo dei mercatini solidali nei quali vendiamo piccoli oggetti realizzati qui in Bangladesh dalle donne che partecipano ai nostri laboratori di artigianato. Siamo sostenuti dalla provincia e dal comune di Parma, e contiamo su una rete di contatti non estesissima ma molto compatta.
Quali sono i progetti che portate avanti?
Al momento stiamo portando avanti il progetto Lekha Pora Shikbo (impariamo a leggere e scrivere), nell’ambito del quale abbiamo costruito cinque piccole scuole in altrettanti villaggi sparsi attorno alla zona di Khulna e Dakope. Coinvolge circa 385 bambini di età prescolare, dai quattro ai sei anni, che vengono preparati all’inserimento nella scuola statale. In questo paese, inspiegabilmente, i bambini devono già saper leggere e scrivere al momento in cui iniziano a frequentare la Primina, e come puoi immaginare non tutti i genitori sono in grado di insegnare l’alfabeto, essendo totalmente analfabeti loro stessi. Abbiamo pensato di intervenire proprio in questa fase perché l’accesso alla scuola primaria spesso viene precluso a molti bambini figli di genitori non istruiti, perpetuando così un sistema di immobilismo sociale che si trascina da secoli, e che non è legato solo alle credenze religiose.
Ti riferisci alla divisione in caste?
Sì, anche a quella. La divisione dell’umanità in quattro caste, con compiti e caratteristiche ben definiti e immodificabili, è un dogma induista, ma in realtà tocca anche i cristiani e i musulmani, che qui in Bangladesh costituiscono l’83% della popolazione. Secondo questa prospettiva culturale, se sei nato in una famiglia di contadini sei destinato a fare il contadino, anche se non credi nella reincarnazione perché vai in moschea tutti i venerdì. Io penso che le classi più alte siano ben coscienti che si tratta di una divisione di comodo, che permette ai più ricchi di mantenere i loro privilegi, e non abbia nulla a che fare con il credo religioso. Ufficialmente il sistema delle caste è stato abolito e dichiarato illegale, ma non è stato sradicato dalle coscienze.
Hai avuto esperienza diretta di questo? In che misura la divisione in caste impedisce lo sviluppo del paese?
Prima di avviare il progetto scolastico di cui mi occupo personalmente, ho passato due anni al sud con padre Luigi Paggi, un saveriano che ha lavorato 30 anni con i fuori casta, i cosiddetti intoccabili, e con i gruppi tribali.(1) Nel corso della mia esperienza con lui mi sono reso conto che quello che manca al popolo bengalese, soprattutto nelle campagne, è la capacità di autogestirsi, di progettare e gestire adeguatamente la propria vita. Sono abituati al fatto di dover semplicemente svolgere i compiti che la loro casta o estrazione sociale prevedono che svolgano. Come ha fatto notare Paggi nel suo libro Caste e Intoccabilità, questo è un retaggio culturale dell’induismo, religione incentrata sulla circolarità del tempo, e sull’impossibilità, da parte dell’uomo, di cambiare la propria condizione, che è conseguenza diretta del volere degli dèi. Il nostro progetto, invece, facendo leva sull’istruzione, punta a dare a ciascuno gli strumenti per costruirsi la propria vita come meglio crede.
Abbiamo preferito inserire bambini appartenenti a tutte le religioni, proprio per evitare di vittimizzare eccessivamente i fuori casta e favorire invece l’integrazione. Se i figli degli indù vogliono studiare nelle nostre scuole, devono sedersi accanto ai compagni fuori casta o accanto ai musulmani, e rispettare le regole come fanno tutti.
Che tipo di programma educativo viene proposto nelle scuoline? Avete pensato di introdurre il modello di insegnamento occidentale o vi attenete a quello locale?
Essendo bambini piuttosto piccoli, il programma educativo prevede per lo più l’insegnamento dell’alfabeto, sia bengalese che inglese, e dei numeri. Oltre al programma per i bambini in età prescolare, abbiamo anche avviato un progetto pomeridiano di ripetizioni gratuite per ragazzi più grandi. Non solo qui in Bangladesh, ma in tutto il subcontinente indiano, è diffusa la pratica della tuition, le ripetizioni private a pagamento, senza le quali è impossibile avere buoni risultati a scuola. La cosa paradossale è che molti insegnanti delle scuole statali sono lassisti durante le lezioni del mattino, ma poi pretendono che al pomeriggio tutti i loro alunni prendano ripetizioni private a pagamento. Con il nostro programma, noi cerchiamo di rompere questo business viziato, ma naturalmente gli insegnanti ci stanno mettendo i bastoni tra le ruote in tutti i modi, arrivando anche a minacciarci apertamente. Ciò che riteniamo importante, al di là del risultato scolastico in sé, è innanzitutto che questi bambini abbiano un posto dove andare mentre i genitori sono al lavoro – neanche a dirlo, in questo paese non esistono gli asili fuori dalle grandi città, e i bambini in genere passano per strada gli anni che precedono l’ingresso a scuola. Da noi giocano, fanno merenda, e imparano le regole basilari della disciplina e dell’igiene. Cose semplici, come mettersi in fila per andare in bagno, lavarsi le mani prima di mangiare, non sputare per terra… ma utili, pensiamo. Inoltre ci teniamo ad avere un rapporto di fiducia con i genitori, li coinvolgiamo e teniamo con loro incontri periodici. Se il figlio arriva a scuola con i vestiti laceri, o se non studia perché viene mandato a lavorare, noi cerchiamo di farli ragionare. Li teniamo aggiornati sui progressi dei loro figli, e abbiamo avviato dei microprogetti di artigianato e agricoltura rivolti a loro. Inoltre abbiamo istituito una piccola retta mensile di 5 take al mese (5 centesimi di euro, ndr) che mettiamo in un fondo personale per ciascun alunno, il quale alla fine del programma scolastico potrà ritirare il denaro con gli interessi maturati negli anni. Non è molto, ma in questo modo ogni studente, alla fine del suo percorso di studi, si ritrova con una piccola somma da impiegare per andare a fare un colloquio di lavoro, o per avviare una piccola attività.
Come valuti i risultati ottenuti finora? Avete avuto delle delusioni?
Naturalmente abbiamo fatto degli errori in passato, e abbiamo anche avuto delle delusioni. All’inizio credevamo di fare una rivoluzione culturale abolendo totalmente il metodo d’insegnamento bengalese e introducendo quello italiano, spingendo quindi i ragazzi a ripetere la lezione con parole loro e ad arrivare alla risposta tramite il ragionamento. Questo tentativo ha peggiorato le cose, i nostri studenti erano gli unici che non passavano gli esami, perché questo modo di insegnare non si sposa per niente con il loro, che si basa sull’apprendimento mnemonico. Siamo quindi tornati sui nostri passi, reintroducendo il sistema bengalese, e finalmente abbiamo ottenuto qualche risultato. Dopo nove anni posso dire che il nostro obiettivo adesso è fare le cose con calma, concentrandoci meno sulle cose e più sulle persone che fanno parte dei progetti. I fallimenti sono da tenere in conto, molti ragazzi alla fine abbandonano la scuola ugualmente, e l’avvento della tecnologia ha avuto un effetto disastroso, allontanando i giovani dalla cultura tradizionale e instillando nelle loro teste modelli negativi.
Che prospettive hai per il futuro?
Cercare di migliorare i progetti in corso. Una strada che vorrei tentare – e in effetti stiamo cercando di reperire i fondi per comprare le attrezzature necessarie – è quella di inserire dei momenti di riflessione e di dibattito su determinati temi a partire dalla visione di un film. Un cineforum, praticamente, ma itinerante, da portare di villaggio in villaggio, per cercare di stimolare i ragazzi a parlare dei loro sentimenti e a descrivere le emozioni, che è una cosa alla quale non sono abituati.
Un’ultima domanda: perché proprio il Bangladesh?
Perché il Bangladesh? Non so rispondere. Tutti quelli che si sono ritrovati in questo paese, preti, suore, ambasciatori, operatori di ONG, hanno un motivo personale, perché stare qui aiuta a ritrovare se stessi. Io ho sempre avuto un ottimo rapporto con l’ambiente missionario, i miei genitori avevano diversi amici che, quando ero bambino, passavano da casa nostra e raccontavano dei loro viaggi incredibili, l’India, la Colombia, posti remoti che illustravano mostrandoci foto stupende. Quando ebbi l’età, feci domanda per svolgere il servizio civile in Burkina Faso, ma non fu accettata. Avevo una bella vita, lavoravo, giocavo a calcio, suonavo in un gruppo, ma non mi sentivo utile. Poi sono arrivato qui… e mi è piaciuto.
Note:
Per approfondire:
http://www.filodijuta.it
- In Bangladesh sopravvivono ancora popolazioni tribali che hanno conservato usi e costumi propri e non si sono mai integrate nel sistema sociale bengalese. Questi gruppi, collettivamente chiamati *Adhibasi* (aborigeni), sono in realtà numerosi e hanno tutti origine diversa, risalente alle antiche migrazioni provenienti dalla Mongolia, dall’India centro-meridionale e dal Tibet. Vivono isolati nelle foreste, e hanno mantenuto la religione animista. La loro posizione sociale ed economica è molto precaria: sono oggetto di pesanti discriminazioni, sfruttamento e angherie proprio perché non integrati nella società. Nonostante la divisione in caste sia stata dichiarata fuorilegge, essa sopravvive soprattutto nelle campagne,
e le popolazioni tribali sono addirittura considerate al di sotto dei “rishi*, gli intoccabili fuori casta. Se, da un lato, il governo si è impegnato a proteggere le minoranze, in passato ci sono state pesanti repressioni, con diversi episodi di esecuzioni e tortura, in seguito alle loro richieste di ottenere l’autonomia. Nei tribunali, di fronte alla polizia e alle autorità
locali sono indifesi, e molti di loro hanno scelto di emigrare in India per sfuggire alle discriminazioni.
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