Caschi Bianchi Ecuador
L’Italia (e non solo) vista da lontano
Dopo alcuni mesi di assenza dall’Italia, guardare il telegiornare italiano per la prima volta fa emergere riflessioni e perplessità. In che modo portare il cambiamento nel vecchio Paese?
Scritto da Marco Ceccarelli
E’ ora di cena. Io scendo dalla mia camera e dalle mie 2 ore di aut- isolamento musicale. Ci mettiamo a tavola e Raffa (il mio coinquilino e compagno di servizio), mosso da un pizzico di nostalgia, lancia la proposta “Che ne dite di vedere il telegiornale?”. “Non lo fare, Raffa” tuona ironicamente il sottoscritto “Il Diavolo sa come giocare le sue carte!”. Niente da fare, vincerà lui e perderà il mio stupido sarcasmo che solo io sembro capire.
Da buoni sovversivi inglobati guardiamo il TG3: Casini propone il quoziente familiare, Berlusconi se la prende con i magistrati politicizzati di sinistra, Bossi parla di federalismo, Fini all’affannosa ricerca di un nuovo elettorato a cui rivolgersi, il Partito (NON) Democratico continua a non proporre un alternativa, prima che politica, culturale, e la sinistra, già la sinistra, semplicemente non esiste.
La mattina seguente saró grato a Raffa per la proposta avanzata. Nonostante la tremenda sofferenza nel vedere il Paese in cui sono nato irrimediabilmente fermo, il (ri)guardare un telegiornale italiano a distanza di 4 mesi mi ha fatto bene.
“Non c’é niente da fare” penso avvolto nella nebbia post-risveglio “ l’Italia sembra Beautiful! Puoi perderti 20-50-100 puntate ma quando, per caso o per scelta, riprendi a vederlo, c’è sempre Brooke innamorata di Ridge, e Ridge che é in crisi per Tylor. Non é cambiato un niente e non cambia mai niente”.
Non sono minimamente retorico quando esprimo il mio profondo rammarico di fronte al lento ma inesorabile annegamento italiano. E’ una specie di odio mosso da amore, da interesse e attaccamento verso una splendida cultura ma che appare prigioniera di stessa e, per di più, unica proprietaria delle chiavi per uscirne. Come diceva il buon vecchio Gaber, insomma, “un gabbiano senza neanche più l’intenzione del volo”.
L’Italia é un Paese al tal punto vecchio anagraficamente, intellettualmente, spiritualmente da non ritrovare più la capacità di sorprendersi, di meravigliarsi. Non lascia spazio ai giovani, ma solo ad uno stupido e controproducente “giovanilismo”. Non solo non esistono idee nuove ma mancano reali spazi per proporle, per discuterne. Tanta apertura/retorica nelle varie dichiarazioni, ma quando si tratta di favorire il necessario e democratico “ricambio” generazionale, nessuno che faccia un passo indietro. Nessuno che anteponga il tanto decantato interesse collettivo alla mera ed egoistica fame di potere e di vanità.
Certo, la colpa non é totalmente unilaterale. Anche noi, i c.d. giovani, siamo responsabili di questo cieco individualismo, nonostante ne subiamo per primi le conseguenze. Siamo una generazione di addormentati, di “comodoni” dalla facile critica e dall’incapacità propositiva. Anche noi, oramai, decifriamo la realtà con occhi da vecchi, dipendenti dalle proprie piccole e inutili comodità. Anche noi sembriamo privilegiare spiegazioni tecniche per decifrare i problemi che ci circondano. Nessun dubbio strutturale, nessuna domanda radicale ha più spazio nella nostra testa e nel nostro cuore, al di fuori del catastrofismo gongolante di chi spera nel tracollo mondiale per poter dire “avevo ragione io!”. Ciò, senza dubbio, fa capire meglio di ogni altra considerazione che cosa significhi pensiero unico.
Come siamo arrivati a tutto questo? Com’é stato possibile toccare il fondo ed iniziare a scavare la nostra tomba? Si, perché un Paese che non concede una reale partecipazione politica alle fasce più giovani, al suo stesso futuro, sono un Paese ed una cultura destinati a scomparire.
Come siamo finiti con l’essere prigionieri dei sogni e non liberi dai bisogni? Parte di una società terrorizzata dalla sua stessa ingordigia, che diffida non più della povertà, ma della sobrietà come di una debolezza sovversiva? Come ci siamo arrivati, ripeto?
Ho riflettuto molto a questa domanda e credo che una delle risposte la si possa trovare in un passato non troppo lontano.
Istruzione, arricchimento culturale, espansione di orizzonti intellettuali. L’Italia, e non solo, dal dopoguerra ad oggi, ha snobbato completamente il settore educativo, riducendone gradualmente gli investimenti. La generazione precedente ha avuto il privilegio, la responsabilità e la libertà di decidere la rotta, di indirizzare il timone nella giusta direzione; ed invece di approfittare di questa immensa quanto unica opportunità, ha tenuto gli occhi fissi sul PIL e zero sguardo su tutto il resto.
La conseguenza non é tardata ad arrivare. Oggigiorno in modo trasversale per fascia di età, ceto sociale, posizione geografica dominano la superficialità innalzata a valore, le differenze declassate a devianze, la paura e la diffidenza vissute come unico e possibile approccio relazionale, come prerequisito fondamentale alla sopravvivenza, alla salvaguardia personale. Non riusciamo, nella stragrande maggioranza dei casi, ad elaborare un ragionamento ed un’opinione più complessa e articolata del “manganello” quindi della forza, della violenza.
Cosa ci aspettavamo, del resto? La Storia ce lo ha mostrato nel corso dei secoli. Quando l’istruzione fa spazio all’ignoranza e quindi alla paura e all’ansia per l’indefinibile, la violenza, non solo fisica, ma anche verbale e psicologica, appare come unica soluzione possibile. E questo stupido circolo vizioso inevitabilmente provoca un’ovvia radicalizzazione del senso di insicurezza attraverso la politica e l’economia che, definendo un mondo sotto lo scacco costante di una minaccia e di una guerra, porta a una realtà iper-militarizzata e controllata, come se in guerra vi fosse realmente.
No, miei cari lontani compagni di viaggio. Non ho teorizzato ancora nessuna via d’uscita. Sembra oramai troppo tardi.
Come spiegare che, sebbene misure di sicurezza preventiva possano essere necessarie, la salute di una società e dei diritti civili si misura, paradossalmente, anche dalla possibilità che dei crimini e quindi delle ingiustizie possano accadere. Capisco che l’affermazione non rientra nei significati delle pratiche discorsive dominanti e per non essere al centro di facili obiezioni ha, dunque, bisogno di precisazioni: solo una società autoritaria e controllata in ogni suo ganglio può prevenire qualsiasi attentato terroristico,furto, stupro, omicidio, rapina ecc. ossia una società che riduce le garanzie civili e politiche per allargare la rete del controllo. Un sistema nazionale che favorisce la partecipazione e le libertà civili e politiche si espone necessariamente al rischio della violenza: il successo consiste nell’intervenire sulle cause della violenza, non nel controllare le sue possibilità di espressione.
La diffusione di politiche dell’insicurezza, di uno stato di guerra permanente ma a bassa intensità come strumento per organizzare il consenso, marcare l’identità confondendola con il senso di superiorità, sono oramai diventate religione, una fede a cui obbligatoriamente aderire per non finire bollato come “nemico”.
Esiste, inoltre, un’ulteriore considerazione legata alla richiesta di maggiore chiusura e autoritarismo: quanto maggiore è la sicurezza raggiunta, tanto più è alta la percezione dell’insicurezza. Il paradosso è evidente: non esistono sistemi d’allarme o sofisticazione di armi e controllo che ci possano mettere al sicuro per sempre, eppure più è l’affanno a creare nuovi sistemi di sicurezza, maggiore è la percezione dello spazio marginale lasciato all’insicurezza. Lo stesso processo che si sviluppa dentro ogni persona quando troppa risulta l’aspettativa verso un qualcosa e in modo direttamente proporzionale ne viene poi percepita la mancanza. Quel paradosso della sicurezza, insomma, in cui “se io sono più piccolo di te, mi dovrò comprare una pistola per sentirmi al sicuro e lo stesso farà l’altro, in nome della stessa logica”. Tutti a perseguire una maggiore sicurezza personale che, paradossalmente, causerà una maggiore insicurezza strutturale.
In conclusione, possiamo vivere come il giovane tenente Drogo in attesa dei Tartari che non arriveranno e scoprire poi un giorno che il pericolo, come nella favola nera di Ballard, è all’interno dei nostri super condomini protetti.
Oppure guardare in faccia i vincoli strutturali del campo economico (i bilanci, le industrie di armi), del campo politico (le campagne elettorali, i fondi ai partiti), del campo mediatico (la ricerca dell’auditel e la spettacolarizzazione) e le esigenze psicologiche che concorrono alla costruzione delle strategie politiche e mediatiche dell’insicurezza, e del suo circolo vizioso, per divenirne consapevoli e limitarne quegli effetti che ci rendono più simili a quei “nemici” di cui tanto abbiamo paura.
Conoscenza, quindi, educazione: unici antidoti possibili a questa follia generalizzata!
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