Argentina Caschi Bianchi

Impegno per l’ambiente, impegno per l’uomo

Bilancio di 4 mesi di servizio a sostegno della piccola agricoltura organica contro lo sfruttamento del suolo per la produzione di cellulosa: incontro con le comunità native.

Scritto da Samuele Bibi

Eldorado, domenica 14 marzo 2010

Eldorado, dopo circa 30 ore di pioggia ininterrotta, mi accorgo di iniziare a comprendere una delle motivazioni più comuni che hanno cambiato la mia tabella di Servizio Civile negli ultimi tempi: “Piove troppo”; per contro l’altra motivazione, sempre meteorologica, che ha cambiato la tabella di marcia è stata più tipicamente che “hace mucho calor!”.

Arrivato il 5 dicembre a Eldorado, nella provincia nord-est dell’Argentina, Misiones, sono stato rapidamente catapultato in questa realtà totalmente nuova, solo e praticamente senza alcun aiuto idiomatico: ero partito con un eufemisticamente “basico” spagnolo, sicuro che sarebbe stato facile apprenderlo in poco tempo e puntando più sulle competenze richieste dal progetto e sulle sue caratteristiche. Fortunatamente sono stato accolto da persone calorosissime e straordinarie che in poco tempo sono diventate quasi una mia seconda famiglia e ho così avuto modo di divorare a occhi aperti questo fantastico mondo senza alcun senso di solitudine, impotenza e nostalgia ma anzi affascinato e coinvolto sempre più dalla realtà che mi circondava.

La ONG con cui collaboro è la RAOM (Red de Agricoltura Organica de Misiones) il cui obiettivo è la difesa su tutti i fronti dell’agricoltura organica contro le monoculture di piante come pino e eucalipto usate intensivamente dalle multinazionali per produrre la carta. In realtà l’avanzamento di queste coltivazioni da parte delle multinazionali ha avuto sempre più l’effetto di ridurre la maggior parte degli agricoltori a braccianti senza terra, lavoratori stagionali o saltuari, con effetti benefici in termini salariali molto evidenti, ma concentrati nelle mani di pochissimi.

Il progetto di Servizio Civile nel quale sono impiegato è rivolto al sostenimento dei piccoli agricoltori attraverso l’organizzazione delle “Ferias Franca”, mercati locali in cui gli agricoltori possono vendere i loro prodotti senza dover pagare imposte sulla vendita; in questo ambito il mio ruolo consiste principalmente nella formazione dei più elementari temi di economia e gestione delle attività nei temi di commercializzazione, contabilità, etc. Tuttavia nei primi 2 mesi soprattutto ho avuto modo di conoscere la realtà locale a tutto tondo, partecipando anche ad assemblee ed incontri con qualsiasi istituzione e aggregazione di soggetti.

All’interno della mia esperienza prospettica per i prossimi mesi e di quella fatta fin’ora, c’è anche un progetto con una comunità di aborigeni, l’“Aldea YSYRY”. Ysyry, in Guaranì MBYA significa acqua che scorre.

Al primo incontro mi aspettavo di trovare la quintessenza di una civiltà umana in piena armonia con la naturalezza, una cultura che privilegiasse un lavoro semplice ma gratificante con ritmi ciclicamente organizzati con le risorse naturali ed un universo di usi e costumi dietro ai quali si celavano secolarizzazioni di ‘filosofeggiamenti’ sull’interezza umana come parte del creato.

Tutto è stato destabilizzato e disatteso: la comunità indigena YSYRY si ritrova attualmente in uno stato di limbo tra civiltà “civile” come la conosciamo ed usi, consuetudini e ritmi propri delle comunità aborigene Guaranì, sembrando non riuscire a cogliere i vantaggi di nessuna delle due sponde. Gli indigeni di questa comunità vestono abiti per lo più mendicati alle case vicine al luogo dove si sono stabiliti, non coltivano piante native o praticano allevamento perché lo Stato procura loro cibo, senza tuttavia avere alcuna forma di visione prospettica nel fornirlo: generalmente vengono loro assegnati decine di kg di carne da un fornitore terzo che, non sapendo come e dove posizionarle, pensa bene di scaricarle direttamente sul suolo. Senza elettricità e alcuna forma di refrigerazione o conservazione della carne è verosimile immaginare lo stato di “maturazione” e putrefazione della carne sotto il tiepido sole dei 40° nonché, ovviamente il loro stato alimentare. Sostenuta dagli “aiuti statali”, questa situazione facilita ed innesca un meccanismo di piena dipendenza degli aborigeni dall’apparato statale che li fornisce con piena gioia in cambio di un bene altrettanto allettante ed appetitoso:il voto politico.

In questa difficile situazione che si è oramai cristallizzata da anni e che rilega la cultura indigena guaranì ad una stretta dolorosa, il progetto nel quale sono coinvolto si prefigge come obiettivi prioritari quelli di ridare forza alla popolazione di questa comunità attraverso tutti i punti di vista: sociale (attraverso un’inclusione più forte nell’educazione) ed economico (attraverso la promozione di un’agricoltura di autosufficienza e il sostenimento di un commercio artigianale in grado di riscoprire e rivalorizzare le opere indigene guaranì).

Questi mesi mi hanno messo e mi stanno sempre più, finalmente, facendo intendere dal vero tutte le varie difficoltà e contraddizioni che un paese come questo può avere, i soprusi e i favori politici, la concessione di piani di aiuto solo per aver voti, il mal sviluppo, il lato oscuro della liberalizzazione, le enormi difficoltà infrastrutturali e, senza andar troppo lontano, le differenze culturali, la strisciante discriminazione tra razze diverse e quella palese tra uomini e donne.

Giorno dopo giorno sto convalidando  il mio impegno sempre più convinto che quella di partire per questo progetto sia stata una scelta giusta, che mi stia aprendo almeno un po’ gli occhi sulle realtà da me fin’ora distanti, che sia un allenamento di vita a trovarmi in situazioni diverse da quelle che mi aspettavo, un’esperienza dalla quale uscirò sicuramente fortificato e sicuramente un po’ più consapevole delle difficoltà che molte realtà si trovano ad affrontare giorno dopo giorno senza che alcun megafono televisivo le ricordi abbastanza assiduamente.

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