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Le storie delle persone irrompono nella routine lavorativa del dipartimento migrazione e rifugio della Conferenza Episcopale Ecuadoriana a Quito

Scritto da Marco Ceccarelli

E’ Venerdi. Il gran giorno. Mi alzo dal letto e da quanto sono teso mi dimentico di bere il caffé. Pantaloni neri, camicia rosa-nero e scarpe molto eleganti. Addirittura decido di mettermi il gel, come se questo avesse un influenza determinante sulla mia giornata.

La riunione é alle 15 e la mattina sono occupato a ripetere quasi autisticamente la presentazione in powerpoint. «Complimenti per l’eccellente lavoro, Marco. Confesso che il linguaggio usato nel documento non è quello che siamo soliti usare. Ma si legge tra le righe la passione e la fiducia in un cambiamento. Hai capito come si prende questo lavoro. Come se lavoro non lo fosse!» scrive Danilo, un mio collega di lavoro, in una mail.
Ma ciò non basta a tranquillizzarmi. Mi rendo conto, col passare della mattinata, che sono molto teso per la riunione che dovró gestire e condurre: convincere alcuni esponenti del mondo associativo quiteño a unirsi a noi, Conferenza Episcopale, con l’obiettivo di sollecitare l’abrogazione dell’articolo 6 della LOSCCA, legge che vieta, di fatto, a tutti i non ecuatoriani l’accesso al lavoro in strutture pubbliche¹. La mattina, quindi, penso a tutto fuorché ad assistere alle persone. Meno male che c’è poca gente, oggi ho la testa da tutt’altra parte. Finché non arrivano due cubani.

Non hanno casa, devono accudire ad una bambina rimasta senza genitori (madre morta e padre scappato chissà dove), e per di più non godono neanche di una situazione migratoria regolare. La consulenza inizia con poca partecipazione da parte mia. Sono appena le 14 ma la mia testa é già proiettata alle 15, ora della fatidica riunione. Finché non iniziano a raccontare la loro storia:
Scappati da Cuba perché «lo Stato interviene nella vita delle persone a tal punto che vuole sostituire il tuo pensiero con il suo. Pensa: se vendi una vacca al tuo vicino senza stipulare un contratto regolare (e quindi pagare le tasse) rischi il carcere fino a 30 anni. Se vuoi mettere su un’associazione, anche di beneficienza, dopo vari interminabili iter burocratici, le prime riunioni sono “assessorate” da un ispettore dello Stato. Se vuoi uscire dal Paese, anche solo per turismo, devi richiedere un permesso a non so quale organo statale che solo dopo 4-5 mesi ti concede il suo parere. Se lasci il Paese per più di 11 mesi, perdi automaticamente la cittadinanza cubana». E di fatto i due rischiano di subire quest’ultima ingiustizia. Arrivati in Ecuador a inizi di Luglio, tra meno di tre mesi diventeranno apolidi se non faranno ritorno nel loro Paese. Le uniche opzioni che rimangono per regolarizzarsi sono poche ed io, che ho già dimenticato l’impegno tanto importante quanto imminente, sono molto chiaro «Vi parlo senza peli sulla lingua. Visto che già vi hanno negato il rifugio, o vi sposate con un ecuatoriana, o fate un figlio in territorio ecuatoriano, o vi trovate un lavoro che vi conceda un contratto a tempo indeterminato! Non avete altre alternative per regolarizzare la vostra situazione migratoria. E comunque, in ogni caso, dovreste pagare i 200 dollari di multa previsti per chi si trova in territorio ecuatoriano senza alcun permesso di soggiorno. A parte ciò, quello che vi posso consigliare, è di tornare a Cuba prima che scadano gli 11 mesi cosi che almeno abbiate una cittadinanza».

«QUESTO MAI! » mi urla il più spavaldo dei due. «Ora capisco quando Fidel diceva O Patria, o muerte: se non sei con loro, sei morto!».

Ora io non so perché, ma in quel momento mi salgono le lacrime agli occhi. E, per la prima volta durante l’orario di lavoro, non le nascondo. «Scusate. Confesso che non piango per voi. O meglio, anche. Vorrei fare molto di più, dirvi che avete una speranza, una possibilità per re iniziare una vita. Ma non é cosi. E forse non sono ancora cosi maturo per sopportare questo senso di impotenza. Mi dispiace, lo dico davvero». Come facilmente immaginabile, irrompe un momento di silenzio e d’imbarazzo da entrambe le parti. «Sai » mi dice quello fino ad allora più silenzioso «Vedere una persona che partecipa alla tua sofferenza é una forma di speranza. Speranza di non essere soli, che prima o poi le ingiustizie faranno ritorno al loro posto. Al posto dei perdenti»
Lascio loro il mio numero di telefono, ma non quello dell’officina. Del cellulare. «Adesso vi do l’indirizzo dell’albergo popolare più vicino ma se non dovessero accogliervi, per qualsiasi motivo, promettetemi di chiamarmi. La casa in cui vivo é molto grande e volentieri vi ospiterei, per il tempo che necessitate. Promesso? »

« Promesso! »  mi dicono all’unisono.
Se ne vanno ed io, al contrario di mezz’ora prima, non ho voglia di partecipare alla riunione, in cui sarò costretto, non solo ad ascoltare, ma ad essere protagonista.
Ma questa, della riunione, é un’altra storia, un altro post. Anzi. Un’ altra emozione.

Note:

¹La LOSCCA (Ley organica de servicio civil y carrera administrativa) é la legge vigente in Ecuador che regola il funzionamento dell’apparato pubblico.

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