Caschi Bianchi Ecuador

Moisés

L’impegno nel dipartimento migrazioni e rifugio a Quito: un incontro.

Scritto da Marco Ceccarelli

Moisés (lo chiamerò così) entra nel dipartimento. Sono circa le 11:30 di un noioso giorno di dicembre pre-vacanza. Io sono con il mio Referente, pronto ad assistere ancora una volta all’ennesimo esempio di consulenza pro-rifugiati. E’ circa il quinto incontro a cui assisto da inizio giornata e già mi prende il sonno. Finché non entra lui, Moisés.

Entra in ufficio, incoraggiato dalle parole di benvenuto del mio collega.
Moisés si fa notare subito per la sua padronanza di linguaggio, per il suo carisma, per la sua agitazione ma soprattutto per la sua storia. Inizia con il suo racconto e subito mi dà l’impressione di essere un pazzo schizofrenico. Indubbiamente sa vendere la propria merce, ma a me non me la fa, penso. Questa storia ha dell’assurdo.

Moisés era un ufficiale dell’esercito venezuelano, un tenente.
E’ così che inizia tutto il suo racconto, presentando un documento firmato e controfirmato dal ministero della difesa venezuelano. Mano a mano che procede nel racconto e si addentra nei dettagli, Moisés trasmette emotività e sconforto: «Sono stato tenente finché la mia coscienza non ha iniziato a bussare piú forte. Voi non potete avere idea per quali schifezze si caratterizza la politica di Chavez. Ma era oramai troppo tardi. Ci stavo troppo dentro e sapevo troppo».
Moisés decide di scappare in Colombia e di disertare l’esercito venezuelano. Un atto di non poco coraggio considerando che «in Venezuela, formalmente, é previsto il carcere per reati di questo tipo ma, sostanzialmente, ti aspetta solo la morte».
In tutto questo io sono defilato, intontito e divertito, gustandomi la scena che si para ai miei occhi come farebbe un qualsiasi spettatore. La curiosità, però, rompe ogni dovere di parte e mi scappa fuori un «E allora perché ha disertato, scusi?».
Moisés distoglie per la prima volta lo sguardo dal mio collega e si gira di scatto verso di me: «Perché vivere con certi tormenti é una condanna ben peggiore».
Moisés decide di portar con sé moglie e figlia in Colombia, di confessare tutto quello che sa ad un periodico locale. Decide di fare tutto ciò…senza prove. E questo tutto ciò, é tanto, anzi troppo per un solo individuo.
Moisés continua a raccontare finalmente la sua storia, incalzato dalle domande del sottoscritto. Racconta dei finanziamenti del governo alle FARC, racconta di come sia stato infiltrato al confine tra Ecuador e Colombia per sovrintendere gli affari del narcotraffico per conto del governo venezuelano, racconta di come si stato spia anche in Perù durante le terzultime elezioni per appoggiare il candidato oppositore di sinistra.

A queste storie nessuno crede. Non ci crede il giornale colombiano, non ci crede il governo colombiano e, lì per lì, neanche il sottoscritto, finché, registrando le sue generalità nella banca dati, non viene fuori che il suo stato civile é vedovo, nonostante i suoi circa 40 anni.
Moisés vede il mio momentaneo tentennamento di fronte al computer e subito ne approfitta per continuare la sua storia. Si vede che ha voglia di parlare, di parlarne: «Non sono solo vedovo. Ho perso anche mia figlia. Forse non é vero che nessuno mi crede. Qualcuno lo ha fatto e per questo hanno rapito e ammazzato la mia famiglia in Colombia». «Le FARC?» rispondo io a bassa voce. «Si, proprio loro» annuisce, guardandomi con la testa china e gli occhi all’insù.
Solo in seguito verrò a sapere dal mio collega che prima che succedesse tutto ciò, Moisés non era squilibrato e agitato come adesso. «Ha perso la testa nel momento sbagliato. O meglio, gli hanno fatto perdere la testa nel momento giusto. Prima che potesse dimostrare molte delle sue affermazioni» mi dice quando l’ex tenente ma ancora guerriero se ne esce dalla porta.

Adesso Moises vive sotto un ponte. Non ha una famiglia, non ha una casa, non ha più amici, non ha un soldo perché tutti gli averi gli sono stati confiscati dal governo venezuelano.
Moisés vorrebbe chiedere rifugio ma l’ottenimento di questo provocherebbe una crisi diplomatica. «Non ha chiesto rifugio perché sa già da sé quale sarebbe l’esito. Ecuador, Bolivia, Venezuela, Cuba sono governi-amici e nessuno gli concederebbe il rifugio. Se ne potrebbe andare in Perú, ma le sue affermazioni sulle terzultime elezioni hanno pregiudicato anche questa possibilità. Potrebbe andare in Colombia, ma le FARC continuerebbero a cercarlo e lo ucciderebbero. L’unica possibilità rimasta é il reasentamiento (trasferimento del rifugiato dal paese dove trova rifugio a un terzo paese che accetta ammetterlo. Pratica usata se le condizioni per cui é stata accolta la domanda di rifugio persistono nel paese ospitante) e andarsene negli Stati Uniti. Solo che prima dovrebbe ottenere il rifugio in un Paese dell’America Latina, cosa impossibile!» mi dice sconsolato il mio collega.
«Ma come é possibile che non si possa fare niente? Le Nazioni Unite, Acnur, non prevedono una forma particolare di protezione per questi casi?».
«Le Nazioni Unite non sono Dio. Sono solo un insieme di Stati che si sono messi intorno ad un tavolo per proteggere i propri interessi. La sovranità nazionale rimane la prima regola che ognuno cerca di tutelare».

Rientro nel mio ufficio scoraggiato da tanta realtà, troppa tutta insieme. Non trovo neanche le parole per arrabbiarmi. Un uomo solo e morto che cammina, penso. Quale destino peggiore?!
E ripenso alle parole di un amico dette appena un giorno prima: «A volte, vince la legge e perdono le persone, Marco. Facci l’abitudine!». Spero che l’abitudine, non ce la farò mai.

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