La speranza di Arroub
Un omaggio alla ricca umanità dei campi profughi: i sentimenti, le speranze, e i dolori dei palestinesi del campo di Arroub.
“Ahlan wa sahlan” significa benvenuto in palestinese. È una frase che ho sentito ripetermi per nove mesi. Chiunque nella propria vita passi per un campo profughi palestinese capirebbe il significato profondo di questa frase, questa generosità istintiva vecchia di generazioni. Ogni casa ti è famiglia, gli occhi della gente ti frugano il viso contenti di annuciare un saluto. La spazzatura turbina per le viuzze, le case rubano metri al cielo. Gli sguardi dolcemente rassegnati dei vecchi, gli occhi ingrigiti a forza di guardar muri di cemento, e i bimbi ovunque, rimbalzati come trottole da pareti troppo strette per contenere tanta vitalità.
Il campo profughi Arroub accoglie palestinesi di oltre 30 villaggi, espulsi dalle milizie ebraiche nella guerra del 1947-49. Dodicimila persone spartiscono gioie e dolori in appena un chilometro quadrato, da sessantun anni, nell’attesa di tornare un giorno alle proprie case, come hanno il diritto di fare. Gente privata della propria identità, esistenze precarie, alberi sradicati e ripiantati altrove. Dannati della terra.
Sono ospite di un famiglia del campo, è ancora giorno e siamo in pieno Ramadan: un buon musulmano non mangia beve e fuma dall’alba al tramonto. “Si tratta di un atto purificatorio, e non riguarda solo il corpo. Bisogna astenersi da cattivi pensieri verso l’altro e da cattive azioni, è un modo di essere”, mi ricordano. È allenamento dello spirito, si scava verso il nucleo di se stessi per scrollarsi ciò ch’è d’avanzo, come si sfoglia una cipolla. Percorriamo con passo lento le viuzze disadorne, le nostre guide indebolite dalla sete e dalla fame. Dalle porte socchiuse la vita erompe sulla strada: odori, grida, facce, qualche mobile intravisto dalle finestre. Il campo non ha segreti, si rivela al mio passaggio senza pudori e senza nascondere le proprie brutture. A chi sa ascoltarlo confida le miserie dei suoi abitanti e la dignità con cui le portano. Rivela un pozzo nero fatto di mille tragedie personali, e un pezzo di cielo dove riscattarle. Parla anche di solidarietà, di una fittissima rete di collaborazioni, aiuti, soccorsi reciproci, che non lascia mai nessuno in serio bisogno. Ci si arrangia, e quando non si ha la forza e la fortuna c’è sempre un braccio teso su cui appoggiarsi.
L’umanità del campo è fratellanza.
La storia del campo a sorsate. La torre usata dall’esercito israeliano per bersagliare il campo, durante la Seconda Intifada; la barriera metallica, appena rimossa, che ha imprigionato il campo per anni; le incursioni notturne dei soldati; il terrore seminato per gioco e per sfregio; la paura degli arresti. Il sonno dei piccoli lo han rubato i soldati. Quando vengono a prendere tuo padre si diventa adulti nel giro di una settimana.
La parola Arroub, in palestinese, rimanda ad abbondanza di acqua. Appena fuori dal campo, infatti, ci sono i resti di un’antica cisterna romana: “da quei tunnel là sotto partivano dei sotterranei che sbucavano a Gerusalemme”. Il sole declina e arrossa l’orizzonte, la luna prende coraggio, le prime stelle scalpitano, vogliono brillare e chiamano la notte. Dalle case l’odor di cibo annuncia la cena imminente. Le famiglie si ritrovano, gli stomaci mordono e le gole ardono.
Imbocco una scala a chiocciola che connette tre appartamenti, tre fratelli, tre famiglie. “Ahlan wa sahlan”, ancora. Ci si siede su dei materassi, disposti intorno ad uno quadrato di pavimento pieno di pietanze. Colori e odori che aprono il viso al sorriso e fanno luccicare gli occhi. La casa è spoglia, qualche stampa di Gerusalemme con la Moschea della Roccia in primo piano, i nomi di Dio, qualche versetto coranico, le foto di famiglia. “L’Islam in cui crediamo è quello che affratella, che insegna il rispetto dell’altro come sacro principio”. Lavoro non ce n’è, l’esilio li ha depredati, l’occupazione continua ad umiliarli. In quei volti leggi la dignità degli umili e degli onesti, che fanno di povertà bellezza.
Il canto del muezzin annuncia la fine del digiuno, ma prima di iniziare si aspetta davanti al cibo, in silenzioso ringraziamento. Non servono posate: si intinge il pane e si raccoglie dallo stesso piatto. Le mani sporche e i piedi scalzi mi restituiscono un sentimento di autenticità, di semplicità che le società opulente non conoscono. “Kul! Kul!Mangia,mangia, l’ospite deve alzarsi sazio”. È la condivisione che dà senso allo stare insieme, e la vicinanza dei corpi scalda. I fiati si incrociano, le mani si stringono in saluti, le parole sanno di riso al pollo, si respira il sudore del vicino. “Perché non ci lasciano vivere in pace? Perché pensano che non abbiamo gli stessi loro diritti? Ci hanno preso tutto: la nostra terra, la storia, il futuro, e non basta, vogliono cacciarci anche di qui”. Tutti e tre i fratelli sono finiti in galera, è normale se vivi in un campo profughi. In Palestina ho imparato a fidarmi delle persone che han pagato per non aver voluto abbassare la testa come gli asini. Quelli che son cresciuti spregiando le bastonate e rifiutando le carote. Esser stati in galera è garanzia di virtù in questa terra.
Entra Fatima, la più anziana della famiglia, madre dei tre fratelli e oramai bisnonna. I suoi ottant’anni le conferiscono autorità e rispetto: si apre uno spazio al suo passaggio, le si cede il posto migliore, cala il silenzio quando parla. Le chiedo se ricorda il suo villaggio: “Ricordo dov’era il forno, la macina, le case, le piante di limone”. E ricorda la Naqba (“catastrofe” in palestinese, la pulizia etnica dei palestinesi nel ’47-’49)? “Ricordo, ero una bambina allora. I soldati circondarono il villaggio su tre lati e cominciarono a terrorizzare le persone per forzarle ad andarsene, dal lato libero. Presero alcuni uomini e li fucilarono sul posto, altri li picchiarono, spogliarono le donne per umiliarle, invasero le case, minacciarono di fare una strage, come a Deir Yassin”. La pelle indurita a difesa. Il volto solcato dalle rughe, quelle più profonde incise dai traumi come per i cerchi delle piante, che segnano l’età e raccontano delle stagioni. Gli occhi si rifiutano di vedere ancora le scempiaggini umane e si son ritirati nella cecità, così come il suo corpicino si è rimpicciolito quasi fino a scomparire nel suo ampio vestito nero, ricamato a fiori verdi neri bianchi e rossi. Come la bandiera palestinese.
Chiedo se tornerebbe al suo villaggio, se mai le venisse data la possibilità. Alza la testa al cielo e allarga le mani come per chiamare Dio a testimone; la voce è un lamento di nostalgia: “Oh se tornerei! Son nata lì, quella è la mia casa, lì i ricordi d’infanzia, lì appartengo”. E torna a richiudersi nel silenzio rassegnato che l’ ha protetta da decenni di patimenti.
Sembrava dormire quando feci per andarmene, ma dal fondo del suo corpicino, chissà da dove, trovò ancora la forza per l-ultimo “ahlan wa sahlan”, con un filo di voce. Non è un addio il mio, Fatima, tornerò.
Raccoglierò io la tua piccola speranza.
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