Caschi Bianchi Sri Lanka
Quale speranza per lo Sri Lanka?
A pochi giorni dalla fine di una guerra, che ha segnato lo Sri Lanka negli ultimi 25 anni, la riflessione di chi vive ed opera in quel paese per portare il suo piccolo contributo alla pace.
Scritto da Giulia Baratta
“Nessuno deve uccidere i Bambini”. Questa è la frase ripetutami svariate volte ieri sera, da Mosè, un bambino italiano di tre anni che è cresciuto qui, in Sri Lanka.
Ieri verso ora di pranzo un caccia bombardiere è passato sopra casa sua, facendo molto rumore e molta paura. Andava verso nord. I suoi genitori gli spiegano cosa succede nel Paese, cercando di far passare un messaggio di pace, nonostante tutto.
Oggi durante la riunione settimanale di ufficio Beppe, il Rappresentante Paese di Caritas Italiana, ha raccontato la sua missione al nord da poco avvenuta. Ha parlato di quel che succede dal check point più grande dello Sri Lanka, che divide il nord dal resto del Paese, fino ai campi profughi e agli ospedali di Mannar e Vavunya. Sono emerse notizie terribili, storie di sofferenza, come è ovvio in un paese in guerra.
Poi mi sono guardata intorno, per capire come i miei colleghi stessero vivendo questo racconto, forte per qualsiasi essere umano, e, dal mio punto di vista, ancora di più per chi appartiene a questo paese. Alcuni sghignazzavano, altri scrivevano appunti per la seconda parte della riunione. Pochi erano attenti e preoccupati.
Alla fine della testimonianza si è ripresa l’ordinaria riunione, senza un minuto di silenzio, di riflessione, una preghiera (e qui ne fanno ogni tre per due). Nulla.
La mia reazione è stata rabbia, sconforto, com’è possibile che non siano interessati? Com’è possibile che non li sfiori minimamente, che non abbiamo bisogno di fermarsi un attimo! Com’è possibile che poi vadano nei villaggi a fare i peace animators? Cosa raccontano alla gente?
Ho pensato che forse le loro reazioni sono dovute all’abitudine. Forse una guerra che va avanti da 25 anni non fa più scalpore, è parte della routine. Forse è una difesa, non si ascolta, così non si sa e si sta meglio. Forse è una scusa per non prendersi delle responsabilità. Non lo so, resta il fatto che non riesco a capacitarmene.
Quale speranza c’è per questo Paese?
A mala pena se ne parla nel mondo, la comunità internazionale non si muove, intanto i civili continuano a essere schiacciati e macinati tra LTTE e governo Sri Lankese, vengono utilizzati come scudi umani, vengono messi “al sicuro” nei campi di accoglienza senza poter uscire, contattare parenti, sapere che è successo al resto della famiglia dispersa e vengono usati come marionette nel gioco sporco della politica degli interessi personali.
La cosa assurda è che come sempre io resto qui, nella zona tranquilla e non sempre riesco a rendermi conto di cosa succede al nord. Ma quando me ne ricordo, non posso non rifletterci, non pensarci, non sentire questo problema un problema anche mio. E non perchè sono qui da qualche mese, ma perchè sono un essere umano.
Penso poi a come sarebbe bello poter credere, come fa Mosè, che gli elicotteri da guerra possano essere dipinti di colori vivaci e riempiti di cioccolato e caramelle e non farci più paura. E che bambini, donne e uomini non muoiano più. Non posso non interrogarmi su quanto sia difficile seminare la pace, senza cadere nell’essere troppo tolleranti nei confronti di chi non è interessato e alla fine, arrendersi. Forse sono le scelte di tutti i giorni che fanno la differenza.
Come casco bianco e antenna di pace non posso far altro che scrivere e ricordare a me stessa le parole di Mahatma Gandhi:“Non c’è strada che porti alla pace che non sia la pace, l’intelligenza e la verità”.
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