Camminavo, l’altra sera, lungo l’avenue che, dal Rond Point Kulonda porta al centro di Brazzaville. Negozi e bar, baracche e ville cadenti cinte da alte mura si allineano sul marciapiede sterrato, pieno di rifiuti e pozzanghere. Una specie di canale di scolo, che separa il marciapiede dalla strada, emana un odore nauseabondo coperto a fatica dai profumi provenienti dai piccoli banchetti che vendono brochettes, manghi, carne e fufu.
Le chiacchiere dei gruppetti di persone sedute lungo la strada si confondono con il rumore dei clacson e dei motori delle auto imbottigliate nel traffico.
E’ difficile guardarsi intorno : bisogna sempre tenere gli occhi fissi sui propri passi per schivare i cumuli di rifiuti, le pozzanghere, i bambini, le seggiole e le occasionali voragini che si aprono, senza un motivo apparente, sul selciato.
Camminavo senza una meta precisa, mangiucchiando una mezza baguette in cui una minuscola fetta di salame faceva del suo meglio per non affogare in un mare di margarina.
Come sempre da queste parti, il mio passaggio era accolto dallo sguardo fisso, talvolta attonito, talvolta divertito, degli uomini, delle donne e dei bambini che si godevano il refrigerio del tramonto. Qualche volta un richiamo, « mindele », mi arrivava alle orecchie ; il più delle volte ignoro questi richiami : dopo quasi un anno di « mzungu » ci si stanca di sentirsi ricordare di continuo il colore della propria pelle.
Non so perchè l’altra sera mi sono voltato
ma di certo è stata una buona scelta:
tempo due minuti ed ero seduto su una sedia
in compagnia di due congolesi di mezz’età affabili e ospitali,
bottiglione di birra Ngok in mano
quasi senza accorgermene e abituale spiegazione:
« j’suis un touriste, j’vien de l’Italie, j’ai passe un an au Zambie… ».
I due hanno voglia di chiacchierare e io anche,
si parla di com’è l’Italia, di com’è Brazzaville,
del perchè qua lo « sviluppo » assuma tratti quantomeno chimerici. Si chiacchera e si beve, quando la Ngok è circa a metà i miei due interlocutori danno il benvenuto ad un altro compare in un doppiopetto marroncino di cui va evidentemente fiero. Mi informano che è un poliziotto.
Bene, « Bonsoir Monsieur le policier », e si continua a parlare.
Pochi istanti dopo ecco arrivare un altro amico, Zoro ; alto, sorriso aperto, faccia simpatica.
Anche lui è un poliziotto, mi dice. « Sono chef sergent; dopo la guerra mi hanno dato questo posto. »
Ah si ?
« Ero nella brousse, ero un mercenario; questi amici che vedi qua erano tutti nella selva con me.»
E’ chiaramente contento dell’effetto prodotto dalle sue parole; in effetti, sono stupefatto.
“Ti faccio paura?”
Sembra leggermente contrariato quando gli dico che no, non ho paura ; se avesse un kalashnikov magari l’avrei…
«E poi non ti ho fatto niente di male, perchè dovrei avere paura ? »
Però voglio sapere e la mia curiosità eccita il suo amor proprio e lo fa parlare a ruota libera. Gli altri aggiungono qualcosa di quando in quando e la prima Ngok se ne va, prontamente sostituita da una seconda.
Voglio sapere come mai è finito a fare il mercenario: “Pour l’argent”, per i soldi, solo per i soldi. Gli dico che, per quanto ne so, i mercenari fanno cose tres mechant come violentare le donne o saccheggiare. “No, noi quelle cose non le facevamo; era solo per la paga.”
Difficile credergli ma è inutile stare a discutere e così continuo a fargli domande, a farmi spiegare.
E’ entrato nei Cobra (con l’accento sulla a), le milizie dell’attuale presidente Denis Nguesso Sassou, nel 1993, un anno dopo la sconfitta elettorale che aveva scatenato la guerra civile. I Cobra combattevano contro i Ninja (sempre con l’accento sulla a) del primo ministro Bernard Koleles e contro i Kokoye del presidente eletto Pascal Lissouba che, fin dai primi giorni di presidenza, aveva iniziato ad accumulare ricchezze tramite la capitale spoliazione delle risorse del paese secondo un modello di cleptocrazia reso famoso da Mubuto sull’altra sponda del fiume Congo.
“Non era difficile entrare nelle milizie -mi dice Zoro- c’erano appelli affissi in giro per Brazzaville, mi sono presentato dove diceva l’annuncio, visita medica e poi mi hanno spedito nella foresta.”
Semplice come bere un bicchier d’acqua.
“Perché hai scelto i Cobra? Sei della stessa etnia di Sassou?” Gli chiedo.
Un sorriso di condiscendenza verso la mia ignoranza gli illumina il volto mentre mi risponde: “No no, lui è del nord, io vengo dal sud. Il fatto è che nei Cobra si veniva pagati meglio.”
Nemmeno il trialismo, in quella guerra sconosciuta, serviva a nascondere la vera ragione: l’argent, solo l’argent.
Il fluire delle domande si interrompe di quando in quando, si scambiano due parole con gli altri mentre Zoro scompare per qualche minuto; accetto di buon grado l’invito ad andarli a trovare anche il giorno dopo, domenica, per fare un po’ di festa con altri ex-Cobra.
Si continua a bere e loro rifiutano animatamente di lasciarmi pagare le mie bevute, cosa che, in Africa, succede solo di rado.
Zoro torna e io continuo attraverso i suoi racconti a calarmi nella realtà di una guerra che in nessun modo può essere definita giusta; più lui parla e più mi rendo conto che questa guerra non è altro che un investimento fatto da ristretti gruppi –in contrapposizione fra loro- sulla pelle degli abitanti della repubblica del Congo, nella speranza di un ritorno economico chiamato Presidenza della Repubblica.
“Non ho mai conosciuto nessuno che abbia ucciso qualcuno –gli dico- Cosa si prova, cos’hai provato la prima volta che hai ucciso qualcuno?”
La risposta, agghiacciante nella sua semplicità, è un sorriso e una scrollata di spalle.
“Niente, è così, solo un lavoro”
Poi è lui a chiedermi:
“Se ti offrissero un milione (di FranchiCFA; circa 1500€) tu non lo faresti?”
Non entra nemmeno, nel suo orizzonte di senso, che ci possano essere convinzioni che vanno oltre l’argent. I cenni di assenso degli altri mi dicono che non è il solo a pensarla così.
Il germe del dubbio non entra in queste menti che ridono e scherzano con me mentre mi svelano a cuor leggero altri particolari:
“E’ successo, qualche volta, che mi abbiano detto che, magari il giorno prima, io stesso avevo ucciso un mio amico, uno del mio paese con cui ero andato a scuola insieme. Che vuoi farci, ça c’est la guerre”
Prima di alzarci per avviarci alla discoteca l’ultima sentenza: io gli chiedo se non sarebbe più facile e meno costoso per i leader sedersi attorno a un tavolo e discutere, invece di pagare milizie. Anche questa volta sorride alla mia ignoranza:
“Questa è l’Africa. Sono i Cobra che hanno messo il Presidente al suo posto, non le discussioni, non le elezioni.”
Come premio hanno ricevuto posti di lavoro sicuri. Sicuri almeno finché non cambia il presidente.
La discoteca è un piccolo edificio rettangolare, rigurgitante di uomini che hanno lasciato la moglie a casa e di prostitute che cercano, fra questi mariti, i loro clienti. All’ingresso un murales curioso spiega, a parole e con disegni, che sono vietate le armi da fuoco, i coltelli, le granate, l’abbigliamento militare, i pantaloni corti e le canotte.
Il volume allucinante della rumba e del kupé-dekalé sparato dai vecchi altoparlanti gracchianti rende quasi impossibile la conversazione e ci si limita a poche parole sorseggiando la birra.
I racconti continuano il giorno dopo quando mi ritrovo con Zoro e con gli altri compari. L’atmosfera è sonnolenta nel caldo afoso della domenica mattina; si parla poco, si gioca a uno strano gioco di società mentre io mangio un panino con salame che una delle sorelle di Zoro mi ha offerto. Poi, verso l’ora di pranzo, ci si sposta di un centinaio di metri in un cortile circondato da baracche dove, all’ombra della tettoia in lamiera, si affollano una ventina di uomini e qualche donna, tutti invariabilmente intenti a bere birra e a mangiare maiale; il “cibo della domenica” come lo definisce Wadi, uno del gruppo di Zoro.
Vi sono uomini in divisa e uomini con il vestito della festa, donne abbigliate in maniera tradizionale, bambini che giocano e galline.
Gli uomini sono tutti ex-mercenari; alcuni hanno cicatrici in faccia o sulle braccia, niente di serio. Immagino che nella brusse non ci si prendesse troppo cura dei feriti gravi.
Fatico a declinare le offerte di birra mentre ascolto alcuni aneddoti:
“C’era un italiano, Roberto, con noi nella brusse; fumava tantissimo, una sigaretta dopo l’altra. Un omone enorme e fortissimo”. Mi dicono.
“E ora che fine ha fatto?”
“E’ morto. Credo che Sassou abbia inviato una medaglia e dei fiori alla vedova.”
“Erano molti i bianchi, nella selva?”
“Oh si, italiani, francesi, belgi, sudafricani…tutti preoccupati a mimetizzarsi il volto con il carbone…noi non ne avevamo bisogno!” Risate generali.
Le immagini di questa guerra sporca mi si formano nella mente: congolesi spinti ad imbracciare il fucile dalla miseria, occidentali finiti lì chissà come, attirati dalla paga ma, forse, ancora di più dalla voglia di combattere senza se e senza ma.
Non posso fare a meno di figurarmelo questo Roberto, con la sigaretta in bocca, la testa rasata, l’espressione un po’ ottusa e un sadismo da criminale che, da queste parti, era scambiato per valore.
Poi, nel tavolo a fianco si accende un’animata discussione in lingala, la lingua locale. Zoro mi spiega che si sta parlando dei salari: la paga è bassa anche per coloro che hanno fatto sì che il Presidente fosse messo al suo posto.
Zoro mi spiega: “Io sono sergente capo e prendo 1000 Franchi al mese, 200$; è possibile vivere così?”
“Poi qua manca tutto: la luce va e viene, le strade sono distrutte; e il Presidente ingrassa.”
“Non è per questo che abbiamo combattuto!”
No, non è per questo che hanno combattuto ma non è nemmeno per qualcosa di meglio.
Hanno lasciato la famiglia all’improvviso –“Come facevo a dir loro che andavo nella brusse?”- inseguendo il miraggio di due soldi in più, fuggendo dalla disoccupazione, ritagliandosi una fetta pur piccola di potere sulla canna del loro Kalashnikov.
Ora possono taglieggiare, con la legge dalla loro parte, gli automobilisti ai posti di blocco, ma non possono fare molto di più.
Il presidente intanto abbellisce le sue ville, al nord, e sua moglie elargisce soldi a piene mani per ringraziare la sua città natale di aver organizzato una bella danza in suo onore.
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