31 Ottobre 2007: non una data qualunque nella mia vita. Quel giorno, appena un anno fa, l’aereo che mi avrebbe riportato in Italia stava decollando dallo sgangherato aeroporto di Ndola. Ndola. Zambia.
Devo essere sincero. Dopo nove mesi in Zambia, dopo aver incontrato tante persone e aver vissuto mille avventure, l’idea di tornare non mi spaventava. Anzi ero contento di poter riabbracciare la mia famiglia, gli amici, la mia comunità e tutte le persone che mi stavano aspettando. Non avevo però fatto i conti con alcuni piccoli problemi di disadattamento che nei primi giorni in Italia ho vissuto sulla mia pelle. Tornare quando qui tutto stava correndo verso il Natale di certo non mi ha aiutato: strade addobbate a festa da una scia di inutili luci colorate, negozi dalle vetrine scintillanti, centri commerciali predisposti come trappole che inghiottono tempo e persone, pubblicità in televisione che come una potente droga sorridente abbaglia tutti… Troppo grande era la distanza fra quel mondo che mi aveva ospitato per nove mesi e questa mia terra, troppo forti le ingiustizie che avevo visto con i miei occhi: la fame, le malattie, la sofferenza, la dignità delle persone annullata dalla miseria, troppa la FATICA ora ad accettare e capire questo surplus che mi accoglieva. Una specie di malessere quasi fisico mi prendeva ogni volta in cui nella mia mente rivedevo scene di vita quotidiana in Zambia, e come fare a non paragonarle alla nostra quotidianità?
La cosa che mi manca di più? Sicuramente la semplicità delle persone, di quel popolo che ha avuto la pazienza di ospitarmi. La semplicità quotidiana, fatta di gesti ripetitivi in armonia con la natura, di cordialità, di disponibilità nonostante il diverso colore della pelle. E poi i “miei” bambini, le loro corse nel campo da calcio, i loro sorrisi, nonostante le difficoltà abbiano già segnato la loro vita, i loro piccoli trucchetti per tentare di fregarmi durante i giochi, e i ragazzi e la loro voglia di riscatto, l’orgoglio per il loro paese.
Ora però sono qui, ormai da un anno, ritornato nella mia Italia, così bella, ma così piena di contraddizioni.
Tutto intorno a me parla di crisi, di sfiducia per il futuro, di scelte (anche politiche)poco lungimiranti. La gente sembra come abbruttita, incattivita.
E chi ha la fortuna di essere aperto e voler capire le cose fa fatica a emergere e si sente come schiacciato da questo sistema che vuole ingabbiare tutto ciò che esce dalla sua razionalità. A volte mi sento anch’io un po’ bloccato…mi sembra di lottare contro i mulini a vento! Penso a come sarebbe bello tornare magari in Zambia, con un progetto di cooperazione come io lo vorrei.
Tutto sommato sarebbe anche facile trovare uno sponsor o raccogliere dei fondi, e ripartire verso luoghi che mi hanno dato tanto. Ma non è questo che serve, almeno non solo questo!
Se si va alla radice del problema, alle cause delle ingiustizie che coinvolgono tante zone del sud del mondo, troviamo le risposte proprio qui da noi, nel nostro mondo ricco. Lo sfruttamento delle ricchezze dell’Africa, per esempio, oppure le guerre per il petrolio, o tante altre cose che magari conosciamo benissimo perché direttamente o indirettamente riguardano la nostra quotidianità! I nostri stili di vita, i nostri consumi, gli sprechi che ogni giorno vediamo o che noi stessi facciamo, l’assurda avidità per avere di più, come una corsa senza fine verso il possesso infinito di beni. Il sistema economico che ci domina ci sta distruggendo e sta distruggendo anche le popolazioni povere del mondo.
E allora finché non cambieremo registro noi, finché non ci imporremo una forte inversione di tendenza, tutto il resto sarà solamente un continuo tamponare, anche nella cooperazione.
La nostra idea di giustizia per il mondo è del tutto irraggiungibile: vorremmo che tutti stessero almeno come noi, che avessero una casa grande come la nostra, un’automobile bella come la nostra, un paio di telefonini, e tutte quelle COSE che pensiamo ci rendano felici. Tutto ciò è impossibile…non basterebbero tutte le risorse del pianeta!
La giustizia invece parte da noi stessi, dal ripensare le nostre vite, il nostro tempo, le relazioni, l’uso delle cose. E di certo non può bastare un bel progetto, o magari un bel finanziamento per realizzare tutto ciò.
Impegnarsi in prima persona, ecco quello che bisogna fare. Appena tornato in Italia mi sentivo come un rivoluzionario. Avrei voluto cambiare il mondo, avrei voluto che tutti la pensassero come me, pensavo che i miei “sermoni” sui problemi della società e del globo, con cui tediavo tutti quelli che incontravo, dovessero essere la verità che ognuno doveva seguire…senza fare storie e senza obiezioni. Ora è passato quel periodo. Perché cambiare il mondo se sono io il primo che fa fatica a cambiare?
Il primo passo, quello più difficile, sto riuscendo a farlo adesso, dopo un anno, mettendomi in gioco nella quotidianità. Ho rottamato la mia auto, uso sempre la bici e i mezzi pubblici, ho convinto me stesso e la mia famiglia a bere acqua del rubinetto invece che di quella imbottigliata, cerco di guardare sempre bene ciò che compro.
Tanti piccoli tasselli, tante piccole azioni che funzionano meglio di qualsiasi grande discorso, sia per me stesso che per gli altri. E’ questo ciò che ho capito:partire da se stessi, nel proprio piccolo, con i propri limiti e proseguire verso gli altri per CONTAGIO.
A volte mi sembra di vivere in un mondo tutto mio, fatto di ideali, di sogni, e di utopie da rincorrere. Invece scopro di essere circondato da persone che si fanno le mie stesse paranoie. Incontro giovani che hanno voglia di mettersi in gioco, conosco famiglie che nel quotidiano si sbattono per creare qualcosa di nuovo e di più giusto, incrocio bambini che nella loro piccola testolina, non ancora plagiata dal mondo dei grandi, già desiderano un mondo diverso per il loro futuro.
Cominciamo ad essere contagiosi verso i nostri bambini e ragazzi delle cose belle della vita, soprattutto quelle più piccole e scontate, come sono stati contagiosi per me quei 200 bambini che hanno condiviso con me le loro giornate per nove mesi.
A volte mi sembra siano ancora qui. Li immagino scorazzare fra gli scaffali degli ipermercati, magari sbalorditi e storditi da tutta la roba che c’è, oppure giocare con i nostri bimbi, con aquiloni fatti di borsette di nylon, trenini realizzati con le bottigliette di plastica e il loro inseparabile pallone di pezze arrotolate. I loro sorrisi, la loro speranza, la loro positività, i loro sogni , il loro diritto ad avere un futuro dignitoso sono la mia benzina, sono ciò che mi spinge ad andare avanti e ad impegnarmi, sono ciò che vorrei trasmettervi adesso, anche dopo un anno dal mio rientro.
E pensando a loro passa anche la FATICA DEL RITORNO, e resta vivo in me quel cuore da Casco Bianco, che ancora lotta contro la mediocrità che si respira nell’aria.
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