“ Soy el rico Potosí
del mundo soy el tesoro
soy el Rey de los montes
envidia soy de los reyes ”
“ Sono la ricca Potosí
il tesoro del mondo
sono il re dei monti
invidia sono dei re ”
I versi citati, tratti dalla scritta presente sul primo stemma della cittá di Potosí, non erano lontani dal vero, dal momento che qualsiasi città situata ai piedi di una vera e propria montagna d’argento non poteva non attirare attenzione o suscitare aviditá.
La sua storia e il suo splendore infatti, cosí come le sue tragedie e i suoi orrori, sono tutti legati a questo metallo prezioso.
Potosí fu fondata nel 1545 a seguito della scoperta di minerali grezzi ricchi d’argento sul “Cerro Rico”, la montagna che, seppure danneggiata da secoli di sfruttamento, fa ancora oggi da sfondo alla cittá. Ben presto le sue vene si rivelarono le piú ricche al mondo. I lavori di estrazione continuano nello stesso identico modo ancora oggi, anche se l’estrazione d’argento avviene in piccola scala.
A prendere il sopravvento sono lo zinco e il piombo, diventati in questi ultimi anni i minerali boliviani esportati in quantitá maggiore.
Verso la fine del diciottesimo secolo Potosí si trasformó nel piú grande e ricco centro dell’America latina.L’argento che vi veniva estratto serví a finanziare l’economia della Spagna e di altri paesi europei, insieme ad alcune stravaganze. Si racconta che la Spagna avrebbe potuto costruire un ponte d’argento lungo abbastanza da collegare Potosí alla penisola iberica. D’altra parte si dice che un altro ponte, lungo quanto quello d’argento, potrebbe essere stato costruito con tutte le persone decedute all’interno delle numerose mine presenti sul “Cerro Rico”.
È stato calcolato che negli oltre tre secoli di dominio coloniale nelle miniere di Potosí siano morti ben otto milioni di africani e indios.
Il lavoro estrattivo infatti era assai pericoloso e per aumentare la manodopera gli spagnoli decisero di importare milioni di schiavi dall’Africa. Peccato che la maggior parte di questi non riuscirono ad abituarsi né al freddo pungente di questi luoghi, né alla difficoltá di vivere costantemente sopra i quattromila metri di altitudine. Per questo motivo, successivamente, gli schiavi africani vennero inviati piú a nord, nello Yungas, vicino a La Paz, a lavorare nelle pantagioni di coca, dove le condizioni ambientali erano loro piú congeniali.
Chiunque ancora oggi lavori nelle miniere, vive circondato da una serie di credenze e leggende degne di essere raccontate. La prima é quella relativa alle origini di Potosí.
Essa ha inizio nel 1544, quando un indio peruviano, tale Diego Huallpa, mentre custodiva i suoi lama notó che ne mancavano due e decise di andarli a cercare. Calata la notte non aveva ancora trovato i capi che si erano smarriti. Siccome il freddo cominciava a farsi pungente, Diego si fermó per accendere un fuoco ai piedi di un monte conosciuto in lingua quechua con il nome di “Potojsi”. Il forte calore del fuoco fece liquefare la terra sottostante, lasciando filtrare nel terreno un liquido scintillante.
Diego si rese conto immediatamente di essere incappato in uno di quei beni per i quali i conquistatori spagnoli nutrivano un appetito insaziabile. Forse si ricordó anche della leggenda inca riguardante la montagna, secondo la quale il sovrano Huayna Capac era stato ammonito da una voce tonante di non scavare le pendici del Potojsi e di non toccare assolutamente il metallo, che doveva essere destinto ad altri.
A questo punto la storia diventa controversa. Secondo una versione, Diego Huallpa serbó per sé il segreto onde evitare di irritare gli apus (spiriti) della montagna. Secondo altre teorie, alla fine il suo istinto prese il sopravvento, portandolo a confessare l’importante scoperta all’amico Huanca, con il quale in seguito mise a punto un piano per gestire in societá l’attivitá di estrazione dell’argento. Stando a questa seconda versione, sebbene il giacimento si fosse rivelato assai ricco, i due amici cominciarono a litigare sulla divisione dei profitti fino a che Huanca, stanco di tutte le discussioni, informó gli spagnoli dell’esistenza della miniera.Comunque si siano svolti i fatti, vero è che gli spagnoli riuscirono, per disgrazia della gente del luogo, a venire a conoscenza delle enormi ricchezze che la montagna di Potosí conservava al suo interno.
Sull’onda del motto “scendi e scava” migliaia di schiavi indigeni furono costretti a lavorare in condizioni disumane per portare alla luce argento di prima qualitá per conto degli spagnoli. Si dice che su dieci lavoratori che entravano al mattino nelle mine, solo tre ne uscivano vivi la sera.
Oggi per fortuna i numeri non sono piú questi, anche se le condizioni e i metodi di lavoro sono praticamente inalterati dai tempi del dominio spagnolo. A proteggere i minatori resta solo il “Tio” (zio) o Supay (non viene mai chiamato Diavolo).
Per coloro che entrano in una delle numerose mine non sará difficile imbattersi in una piccola, satanica figura posta in una nicchia da qualche parte lungo i corridoi…questo é il “Tio”.
Ogni venerdí notte tutti i minatori si ritrovano davanti a una delle statue presenti allo scopo di ottenere la sua benevolenza e protezione. Viene versato alcool, nella sua bocca vengono inserite sigarette accese (a causa delle correnti d’aria puó succedere che la sigaretta si consumi e sembra che la statua stia fumando…i minatori dicono che quando succede é buon segno!) e tutt’intorno vengono lasciate foglie di coca.
In seguito, come nella maggior parte delle feste boliviane, i minatori fumano, masticano coca e bevono fino a perdere i sensi.
La cosa strana é che il “Tio” é entrato a far parte delle credenze indigene solo dopo l’arrivo degli spagnoli. Perché?
Un ex-minatore ci racconta che durante i primi anni di estrazione d’argento i padroni spagnoli non avevano il coraggio di entrare nelle mine per controllare i loro schiavi. Si inventarono quindi questa strana figura per creare nella mente dei minatori la paura che il “Tio” li avrebbe puniti se non avessero lavorato come il padrone diceva loro.
Al “Tio” oggi si chiede protezione, fortuna, salute, ma soprattutto una vena ricca d’argento, magari la piú ricca mai incontrata.Si racconta che colui che oggi rappresenta il padrone della piú grande mina di Potosí, quindici anni fa non era che un povero minatore. Anche lui come gli altri dava in dono al Tio ogni venerdí alcol, sigarette e coca, ma questo non serviva. Lui voleva di piú, e perché la Terra gli desse molto, la sua offerta doveva essere grande. Quale cosa piú grande di un feto di un figlio? Quindici giorni dopo questa offerta, il minatore si imbatté nella piú grande vena d’argento mai incontrata a Potosí.
Un altro aspetto importante e curioso é quello delle donne all’interno delle miniere. Si dice che la presenza femminile nel sottosuolo porti sfortuna in quanto susciterebbe la gelosia di “Pachamama” (Madre Terra).
Spesso questo tabú riguarda solo le mogli dei minatori, fatto sta che molte donne quechua hanno il solo compito di raccogliere i rifiuti di miniera tra cui piccole quantitá di minerale che possono essere sfuggite, esclusivamente all’aria aperta.
Aldilá di ogni credenza, la situazione dei minatori di oggi non é molto diversa da quella di alcuni secoli fá. Gli attrezzi usati sono primitivi, le temperature variano da diversi gradi sotto lo zero ai quarantacinque in corrispondenza del quarto e quinto livello. I minatori, esposti ad ogni sorta di gas e agenti chimici in genere muoiono dopo dieci-quindici anni di lavoro. Le contromisure mediche in caso di incidenti o silicosi sono minime e la pensione prevista per gli inabili é ridicola.
In ciascuno di loro peró c’é sempre la speranza che le offerte fatte al “Tio” tutti i venerdí portino al piú presto un prezioso regalo.
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