Caschi Bianchi Tanzania

Mzungu

Convenzioni, stereotipi e semplificazioni tra Africa nera e Europa bianca: tra tante domande rimane la sensazione che quella pelle bianca ti “freghi” e ti intrappoli nella gabbia dell’apartheid.

Scritto da Simone Ceciliani, Casco Bianco a Iringa

“Mzungu” è tra le parole che mi sento dire più spesso nel corso della giornata: che si tratti dei bambini che incrocio per strada, o di persone che non conoscendomi mi chiamano, o di passeggeri che nel bus stanno parlando di me: per la maggior parte delle persone di Iringa sono semplicemente un “mzungu”.
Quella del “mzungu” è un’immagine costruita e veicolata dalle tv, dalle pubblicità delle multinazionali e dagli atteggiamenti della maggior parte dei turisti bianchi che affollano spiagge, savane e mercati delle città tanzaniane e che creano nell’immaginario africano la figura dell’europeo come di una persona piena di soldi, inadatta e incapace ai lavori manuali, fisicamente fragile, abituata ai comfort.

Per le strade di una città africana la tua pelle bianca non passa certo inosservata, anzi è il primo fattore di distinzione, per molti è l’unico; è come un marchio con i suoi significati ben precisi che ti porti dietro senza neanche conoscerli bene.Cosa significa esattamente la parola mzungu? Viene tradotta come “europeo, uomo bianco” ma non è esatto: viene usata per indicare i bianchi, ma il suo senso profondo è diverso. Deriva dal verbo “kuzunguka” che significa “girare intorno”. Il “mzungu” è dunque l’uomo che gira intorno. E coloro che giravano intorno in Tanzania del periodo coloniale, per supervisionare il lavoro degli schiavi erano i coloni europei. Gli anni di dominio coloniale hanno lasciato un’impronta profonda e il fatto che la parola “mzungu” sia l’unica in lingua swahili a denotare i bianchi ne è una dimostrazione chiarissima.
Ci sono parole come waitalia (italiani), waingeresa (inglesi), wajerumani (tedeschi), ma non vengono quasi mai usate: è un linguaggio di tipo “geografico” che si rifà all’appartenenza delle persone a un determinato territorio con confini ben precisi, un lessico che da queste parti è utilizzato poco, non appartenendo di certo alla cultura locale. Il linguaggio che si usa qui fa riferimento piuttosto alle qualità di un popolo, a qualcosa che lo denota in modo specifico distinguendolo dagli altri. Per esempio la popolazione che abita in maggioranza la regione di Iringa è quella dei Wahehe. E il nome deriva dall’urlo di battaglia che i guerrieri wahehe emettevano quando si buttavano nella mischia “He! He! He!”. Allo stesso modo, “Mzungu” non indica l’abitante di un luogo preciso: indica una qualità delle persone a cui questo nome viene attribuito.
E questa qualità è finita per appartenere a tutti i bianchi perché in fondo sia che si trattasse degli inglesi, sia che si trattasse dei tedeschi (le due nazioni che si sono avvicendate nel colonizzare la Tanzania) il succo cambiava poco: gli europei che venivano, venivano per sfruttare e dunque che differenza faceva? Erano wazungu punto e basta.
Forse che nel vedere un bianco la prima cosa che pensano è che siamo i discendenti dei vecchi colonizzatori? Probabilmente no, la parola “mzungu” si è snaturata nel tempo, ha perso gran parte del suo significato originario, pur rimanendo invariata. Inoltre l’accoglienza calorosa che viene riservata agli ospiti non farebbe pensare a niente di tutto questo. L’accoglienza qui in Tanzania è infatti sacra; siamo nella terra dove non è possibile iniziare un discorso senza prima compiere il rito dei saluti, ovvero l’accertarsi che chi hai di fronte sta bene, che la sua famiglia sta bene, che il lavoro va bene…Ma talvolta dietro i sorrisi e le strette di mano senti che c’è qualcosa che non funziona. A volte hai la sensazione che quella tua pelle bianca ti freghi, ti intrappoli per così dire nella gabbia dell’apartheid. È un apartheid mentale, fatto di cose pensate e non dette, da entrambe le parti, un qualcosa che non ti permette di stabilire un rapporto alla pari e rende veramente difficile pensare di poter realizzare delle vere amicizie o rapporti sinceri fino in fondo con buona parte delle persone che incontri.

Qui non si tratta solo di ovvie ed enormi differenze culturali fra i popoli d’Europa e quelli d’Africa; si sta parlando infatti di un passato recentissimo fatto di dominio (l’ultimo Stato africano a guadagnare l’indipendenza è il Sud Africa nel 1994 con la fine dell’apartheid; per la Tanzania invece l’anno è il 1962) e che ha le sue radici nel famoso Congresso di Berlino (1884-1885), dove i grandi d’Europa si sono riuniti intorno a un tavolo e con matita e righello si sono divisi come se un intero continente fosse il giardino di casa loro.
Fa impressione allora guardare una mappa politica dell’Africa contemporanea e vedere quei confini ancora lì, immutati, come fossero un marchio per questa terra che i confini non li aveva mai conosciuti. Capisci allora che quel dominio, quella aggressione è innanzi tutto culturale, prima ancora che territoriale: è la vittoria del modello occidentale di gestione dello spazio e del territorio e quindi del suo rapportarsi con popoli e culture diverse. È un modello che ha nel confine e quindi nella differenziazione funzionale al dominio il suo pilastro fondamentale (e nel caso dell’Africa il confine è qualcosa di assolutamente imposto ed esistente solo sulla carta).
Il discorso che ne è derivato è quello del “noi” e “voi”, “bianchi” e “neri”, una dialettica che seppur in forme diverse è rimasta e anzi si sta rafforzando oggi in un Mondo sempre più globalizzato: Africa, pelle nera, immigrati, sottosviluppo da una parte, Europa, bianchi, mondo sviluppato dall’altra.
È un confine tanto netto quanto bugiardo che ha inscatolato i popoli d’Africa all’interno di stereotipi e falsità e che ha finito in fondo per intrappolare noi stessi all’interno di altrettanti stereotipi come quello del “mzungu”. Mzungu è una reazione ovvia avvenuta anche qui a livello culturale (linguistico) da parte dei colonizzati in risposta al discorso imperialista che ha sempre visto nel “nero” una persona da usare o nel migliore dei casi da educare, più che un soggetto libero. Oggi questa parola non si è evoluta, forse perché effettivamente non si sono di molto evoluti i rapporti tra Europa e Africa, e forse anche perché fa comodo a molti qui in Tanzania attribuire tutta la responsabilità della situazione di povertà del Paese solo ed esclusivamente ai bianchi e al loro dominio, ai wazungu quindi..
Da una parte un imperialismo culturale europeo che non è di certo finito e che continua anzi a rilanciare quel discorso fatto di generalizzazioni, banalizzazioni, semplificazioni, concetti vuoti di senso e strumentali come “africano”, “islamico”, “sottosviluppo”; dall’altra una reazione che appiattisce nell’unico stereotipo del “mzungu” tutto il mondo europeo. La grande varietà umana che abita i continenti viene così ridotta in grandi gruppi omogenei, esistenti solo sulla carta e non certo corrispondenti al mondo reale, un mondo fatto di individui e popoli diversi in continua evoluzione e non di Stati, nazioni e confini rettilinei. Io non sono “mzungu”, tanto quanto loro non sono “i neri”.

Note:http://www.rebirth.co.za/images/Map_of_Africa.jpg

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