Essere bambino nei Territori Palestinesi
Nel 2007, 700 bambini palestinesi dei Territori Occupati sono stati arrestati dall’IDF e detenuti nelle carceri militari. Il numero di prigionieri bambini dall’inizio della seconda intifada, settembre 2000, ad oggi è aumentato così a 5900. La storia di uno di loro.
Ziad ha solo 16 anni ma nei suoi occhi si legge la storia di chi ha oramai abbandonato i sogni di essere bambino. Sprofonda lentamente nella poltrona in cui lo abbiamo fatto sedere e si copre il volto dal collo al naso con la sua kefia bianca e nera, quella di Arafat, Abu Ommar, il capo del movimento di liberazione per la Palestina.
Cerchiamo di strappargli un sorriso battendogli le mani e augurandogli un bel “ahlan wah salan”, welcome back. Perchè Ziad è stato appena rilasciato dal centro di detenzione e investigazione Etzion, dove per la quinta volta in 4 anni ha sperimentato cosa significa essere un “child prisoner”, prigioniero bamino nelle carceri militari israeliane.
Ziad vive nel campo profughi di Aroub, a metà strada tra Betlemme e Hebron, assieme ai suoi genitori e ai suoi sei fratelli e tre sorelle. Nessuno dei suoi familiari ha al momento un vero lavoro. Due dei suoi fratelli più grandi sono appena stati rilasciati dal carcere. Per la prima volta, dopo tanti anni, la famiglia è riunita al completo.
Aroub è un piccolo campo, ospita circa 3.000 persone e come in tutti i campi profughi la vita è molto difficile. Le case minuscole e spesso senza vetri e porte sono ammassate l’una sull’altra, non c’è spazio per i bambini per giocare se non negli stretti vicoli tra un palazzo e l’altro. Il campo è stato recintato da un’alta rete che termina con filo spinato per proteggere dalle pietre i bambini che lanciano, la base militare situata all’atro lato della strada. Ogni notte i soldati invadono il campo incutendo terrore e arrestando persone. I bambini, come Ziad, spesso esprimono la loro frustrazione tirando pietre alle jeep e ai carri armati che entrano nel campo.
Sono le 2 di notte del 2 maggio. Ziad dorme sul suo materasso in un angolo della stanza, stanco, ma felice della gita a Jericho con amici, che si è appena conclusa. D’improvviso i militari sfondano la porta della sua casa e radunano tutti i familiari in una stanza con i loro documenti d’identita. Ziad, picchiato di fronte alla madre, viene poi portato in un’altra stanza dove viene ammanettato e bendato. Come di routine durante gli arresti, i militari lo caricano nella jeep, senza dare spiegazioni né a lui né alla famiglia. Non sa ancora dove verrà portato, ma pancia a terra e occhi bendati, faticando a respirare sotto la pressione degli scarponi dei soldati sulla schiena, e i fucili puntati addosso, non ha paura. Sa cosa l’aspetta. L’unico pensiero è il dolore causato alla famiglia, da poco riunitasi tutta assieme, e l’angoscia di non sapere per quanto tempo durerà questa volta il terrore.
Nel solo 2007, 700 sono stati i bambini palestinesi dei Territori Occupati arrestati dall’IDF e detenuti nelle carceri militari. Il numero di prigionieri bambini dall’inizio della seconda intifada, settembre 2000, ad oggi è aumentato così a 5900.
Ziad fu arrestato la prima volta quando aveva solo 13 anni, accusato di aver tirato pietre ai carri armati israeliani. La sua prima detenzione durò solo due settimane, non avendo i militari sufficienti prove per condannarlo e non riuscendo, nonostante le pesanti minacce durante gli interrogatori, a farlo confessare. In queste due settimane Ziad non vide né un avvocato, né una corte, né nessuno della sua famiglia. Ma l’arresto piu lungo e sofferto avvenne nel 2005, quando per la terza volta fu accusato di aver lanciato pietre e molotov cocktails ai militari in ronda nel campo.
Da quando i territori palestinesi sono stati occupati militarmente nel ‘67, la vita della popolazione è governata da ordini militari, direttamente emanati dal comandante dell’esercito nella West Bank. Al giorno d’oggi sono 1500 gli ordini militari emanati che regolano i territori occupati. Le corti militari naturalmente non applicano il diritto civile o internazionale, ma si basano esclusivamente su tali ordini. L’ordine numero 132 definisce “bambino” ogni persona sotto i 16 anni e fornisce la portata delle pene che possono essere imposte a secondo dell’età dell’accusato: sei mesi per i bambini tra 12 e 13 anni, tra 6 e 12 mesi per i bambini tra i 14 e i 15 anni con un massimo della pena di 5 anni che possono diventare a vita per reati d’omicidio o tentato omicidio. Una volta superati i 16 anni i bambini sono sottoposti alla legislazione degli adulti, in aperta violazione con il diritto civile israeliano che include sotto la categoria di bambini, tutti coloro che non hanno raggiunto la maggiore età di 18 anni e pertanto stabilisce un trattamento differenziato tra bambini israeliani e bambini palestinesi. La pena massima che può essere imposta a un bambino palestinese accusato di lancio di pietre è di 20 anni. Il sistema giudiziario militare israeliano calcola la sentenza a seconda dell’età dell’imputato al momento del processo e non al momento in cui l’azione è stata commessa. Così avviene spesso che molti bambini vengano trattenuti per lungo tempo nelle carceri prima della sentenza e vengano imposte loro pene più lunghe a causa della maggiore età maturata nel corso delle procedure processuali.
L’arresto del 2005 causò a Ziad una settimana di isolamento in una cella di un metro per un metro, nella quale non poteva nemmeno distendersi, una sola finestra che dava su un corridoio, dalla quale filtrava una luce fioca, per poche ore al giorno. Un pasto al giorno, pane e burro e un bicchiere d’acqua, no contatti col mondo esterno, no coperte, niente di niente: solo un’uscita una volta ogni due giorni per andare al bagno. L’ottavo giorno venne interrogato. Niente avvocato. Accusa: 2 molotov e 7 pietre lanciate ai militari nel campo. Malmenato e minacciato di non rivedere più la sua famiglia e la sua casa, Ziad continuò a negare finchè non venne forzato a firmare un documento in ebraico (lingua che naturalmente non conosceva), necessario –gli dissero- per visionare le prove della sua accusa. Il documento risultò poi essere, durante il processo, la sua confessione.
La maggior parte delle confessioni dei bambini nelle carceri militari sono estorte sotto tortura o minacce verso la famiglia del detenuto. Questo fa sì che i bambini, già psicologicamente terrorizzati dall’esperienza dell’arresto e del confinamento, per il 95% dei casi confessino reati che a volte non hanno mai commesso. A volte gli avvocati stessi, trovandosi nella drammatica situazione di dover scegliere tra boicottare un sistema che è chiaramente una vergognosa imitazione di una corte di giustizia, e cercare di ridurre la pena del detenuto, invitano i bambini a firmare la propria confessione per evitare che le distorsioni del sistema giudiziario militare li tengano in carcere più di quanto la pena per il reato commesso preveda.
Secondo la giurisdizione militare può trascorrere un periodo che, continuamente rinnovato, può arrivare fino a 188 giorni di detenzione, senza che un prigioniero possa vedere il proprio avvocato, e fino a 2 anni prima di essere portato di fronte a una corte.
Ziad fu così condannato dopo 101 giorni di detenzione già trascorsi, a 7 mesi di pena che passò tra una prigione e l’altra.
Molte carceri militari si trovano all’interno di Israele, in violazione con l’articolo 76 della IV Convenzione di Ginevra che recita: “an occupying power must detein residents of occupied territory in prisons inside the territory.”
I bambini sono sottoposti a diverse forme di punizione durante la detenzione, tra le quali confinamento, visite familiari negate, tempi ricreativi negati, educazione negata, ambienti affollati e sporchi, cibo scarso e di bassa qualità, insulti e minacce verbali e violenze fisiche.
Le visite nelle carceri militari sono regolate da una severa legislazione. Non si possono ricevere visite per i primi 60 giorni di detenzione. Una volta passati questi, a ogni detenuto è in teoria permesso ricevere 24 visite familiari per anno di 45 minuti l’una in una cabina dove le due parti sono separate da una lastra di vetro. Per poter visitare un detenuto, la famiglia deve richiedere un permesso alle autorità israeliane che comporta un’attesa che va da uno a tre mesi. Questo fa sì che le visite effettive si riducano della metà. Il permesso è valido solo per tre persone che non devono aver avuto problemi con la giustizia. Difficile nei Territori Occupati aver fratelli che non siano mai stati arrestati almeno una volta dall’IDF. Ziad potè ricevere poche visite, e solo alla madre e due fratelli più piccoli fu rilasciato il permesso.
Durante il periodo trascorso nel carcere di Telmont, a Tel Aviv, a Ziad fu permesso di frequentare delle lezioni di arabo, ebraico e matematica con un insegnante arabo – israeliano. Secondo la corte di giustizia israeliana ai prigionieri bambini palestinesi dev’essere garantito lo stesso diritto all’istruzione dei prigionieri bambini israeliani, ma questo diritto può essere soggetto a limitazioni dovute alla particolare situazione di sicurezza. Non essendo specificato cosa si intenda per situazione di sicurezza, le corti militari hanno deciso che la geografia e la storia non devono essere insegnate ai bambini palestinesi. Ogni bambino riceve circa un massimo di due ore alla settimana di istruzione. Libri e penne vengono distruibuiti al momento della lezione e ripresi indietro alla fine.
Spesso sono gli adulti, in carcere con i bambini, che insegnano loro diverse materie. Ziad nel carcere di Telmont apparteneva alla tenda di Fatah, e qui ogni giorno i più anziani decidevano un programma per i più piccoli.
Da quando Ziad finì di scontare i suoi sette mesi, un anno e mezzo è passato, un anno e mezzo durante il quale ha subito altri due arresti. Durante il penultimo Ziad è stato picchiato e ha passato i suoi giorni in isolamento, con una costola rotta e una emmorragia interna. I militari gli hanno proposto di pagare una cifra di 400 euro per essere rilasciato. La sua famiglia non aveva questi soldi, ma poichè le condizioni del ragazzo andavano aggravandosi sempre più, non ha avuto alternative. Grazie a prestiti e solidarietà di amici e parenti, Ziad è potuto tornare a casa.
Da allora vive nel terrore che i militari possano arrivare ogni notte e arrestarlo senza motivo. Vuole scappare, ci chiede di aiutarlo per andare all’estero e poter studiare e condurre una vita normale. Avevo incontrato Ziad, l’ultima volta, solo 10 giorni fa, e con la sua voce timida mi aveva detto: “Se continuo a vivere qui, sono sicuro che prima o poi mi ammazzano”.
Due giorni dopo Ziad è stato arrestato per la quinta volta. L’ultimo arresto è durato solo 5 giorni.
Da solo, ancora un volta, in una piccolissima cella senza luce, senza possibilità di contatti col mondo esterno, interrogato 3 volte al giorno, costretto a subire pesanti minacce verso la sua famiglia e indegnose proposte di collaborazione.
Ziad ha solo 16 anni e nei suoi occhi si legge tristezza e paura. Vorrei potergli promettere che ora è tutto finito e che può continuare a vivere la sua vita assieme alla sua famiglia e ai suoi amici. Ma per chi vive in un campo profughi non è così. La sua spensieratezza e i suoi sogni sono stati rubati. Come spiegargli che niente e nessuno potrà mai ridarglieli indietro?
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