Caschi Bianchi India
Monaci tibetani in sciopero della fame
Ho approfittato di una mattinata libera dal mio servizio civile e sono venuta a vedere cosa sta succedendo qui nel Tibetan Refugee Camp alla periferia di Mundgod, piccola cittadina nel Nord Karnataka …
Scritto da Verusca Pezzati
Ho approfittato di una mattinata libera dal mio servizio civile e sono venuta a vedere cosa sta’ succedendo qui nel Tibetan Refugee Camp alla periferia di Mundgod, piccola cittadina nel Nord Karnataka, dove si sta svolgendo uno sciopero della fame da parte di alcuni monaci. Purtroppo nessuno di loro parla ne’ inglese ne’ kannada, ma mi dicono di aspettare e in pochi minuti vedo arrivare un signore paffuto con un sorriso decisamente simpatico, pronto a rispondere alle mie domande.
Come ti chiami?
“Mi chiamo Passam, sono del Tibet ma sono cresciuto in questo campo, nel ’59 i miei genitori si sono rifugiati qui e adesso vivo nel campo 3 con mia moglie e i miei due figli”.
Da quanto và avanti lo sciopero della fame?
“E’ cominciato il 15 marzo e ogni giorno decine di monache del monastero Jang Chup Choeling si siedono qua, pregando, chiedendo al governo cinese di facilitare un dialogo per risolvere i problemi in Tibet, di smettere di usare la violenza contro civili e religiosi. Bevono solo acqua e ogni 24/48 ore si alternano con altri che prendono il loro posto”.
(Mi indica delle crude foto pubblicate su internet, corpi brutalmente mutilati di civili e monaci arrestati e torturati)
“Questo è quello che continua a succedere alla nostra gente per aver preso parte a delle manifestazioni pacifiche, per aver dichiarato il desiderio di metter fine a questa carneficina di innocenti o solo per aver espresso fiducia in Sua Santità Dalai Lama.
E queste persone chi sono? (Li indico altre foto in un cartello scritto in tibetano)
“Sono parenti o conoscenti di alcuni di noi che sono in Tibet e sono scomparsi, probabilmente già uccisi..”
Guardo un altro striscione, questa volta scritto in inglese, dove si richiede di concedere ai giornalisti indipendenti la possibilità di verificare la situazione corrente in Tibet..
“Quello che sta succedendo non riguarda solo la violenza fisica. La nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra lingua, tutto sta scomparendo..”
Quanti rifugiati vivono qui?
“Circa 12.000, su più di 4000 acri di terra. Siamo molto grati al governo indiano, ci ha dato grande aiuto accogliendoci e concedendoci di vivere qua’ legalmente. Si trovano diverse scuole all’interno del campo, dalle elementari alle superiori. Abbiamo anche la redazione di un nostro piccolo giornale regionale, gestito da giornalisti indiani, ovviamente in lingua Kannada ( la lingua ufficiale dello stato del Karnataka ). E’ Sir. Navang Nurbe che gestisce il campo e gode della piena fiducia di tutti noi. Comunque questo non è l’unico campo, ce n’è un altro sempre qui in Karnataka, a Mysore, il Chushun Nagal Camp, che ospita altri 16.000 tibetani e uno a Dharmsala (Himalach Pradesh ) dove risiede la nostra Santità Dalai Lama”.
Insomma vedo che vi siete ben integrati, certamente però il sogno di tutti rimane quello di tornare a casa..
( Sospira e sorride.. ) Ovviamente.. Il mio come quello di tutti noi qui.. Sappiamo però che occorrerà molto tempo affinché ciò accadrà.. La nostra fiducia è riposta nella S. Santità Dalai Lama, nella speranza che presto riesca ad ottenere un dialogo con i rappresentanti del governo cinese. Guardiamo all’ India con molto rispetto per come ci ha accolto ma soprattutto per come è riuscita ad ottenere l’indipendenza dall’inglesi grazie all’intervento pacifico ed effettivo di Gandhi. Questo è ciò che abbiamo sempre desiderato e non ci arrenderemo fino a che il Tibet non sarà liberato dalle torture che la Cina sta’ infliggendo alla nostra gente ma soprattutto fino a quando non ci sarà giustizia..”
Mi sorride, forse sente che per lui la conversazione è finita, si alza, mi stringe forte la mano ringraziandomi per essermi interessata alla loro causa, invitandomi a tornare, e così come è arrivato se ne và, lasciandomi nel silenzio della protesta. Anche le monache sedute mi salutano e io mi chiedo quanto sangue e sofferenze ancora dovranno scorrere in Tibet, come purtroppo in tante altre parti del mondo, e una frase di Dylan affiora nella mia mente “ How many years can some people exist before they are allowed to be free?”….
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