Laureato in Psicologia sociale all’Università La Sapienza di Roma nel 1975, noto intellettuale definito da molti “filosofo”, Don Lush è giornalista caporedattore di Drita, quella che un tempo fu l’unica casa editrice in albanese, che oggi pubblica l’omonima rivista religioso-culturale. Membro del Forum degli intellettuali albanesi, e della Prizren, Kossovo.
Commissione dei Diritti dell’Uomo e dell’Accademia delle scienze e dell’arte d’Europa con sede a Bruxelles, presidente dall’Associazione benefattrice del Kossovo “Madre Teresa”, è un grande sostenitore del dialogo interreligioso e interetnico, in un luogo devastato dalla guerra tra serbi e albanesi.
È stato uno dei promotori del pacifismo in Kossovo e del movimento noto come Primavera del perdono, durante il quale, dal 1990 in poi, centinaia di albanesi scelsero pubblicamente di rinunciare alla vendetta prevista dalle loro consuetudini secolari e di spezzare per sempre la catena delle faide che aveva contrapposto per decenni le famiglie e alimentato odio e vendetta.
È stato amico e strettissimo collaboratore del defunto Ibrahim Rugova, presidente “senza esercito e senza polizia”, che, al pari di ciò che Gandhi fece per l’India, portò avanti una lotta nonviolenta per l’ottenimento dell’indipendenza del Kossovo dalla Serbia.
Si dice che gli albanesi del Kossovo aspettassero
di essere riconosciuti ufficialmente come popolo
già nel 1913 quando venne creata la Jugoslavia
“Regno di Serbi, Croati e Sloveni”.
Perché furono tenuti fuori dai giochi
della diplomazia delle grandi potenze occidentali?
Nel 1878, con il Congresso di Berlino,
a Russia, vincitrice sugli ottomani,
diede le terre degli albanesi
alla Serbia, monarchia neo-indipendente.
Con il crollo dell’impero ottomano,
l’annessione del territorio all’impero
austro-ungarico e la creazione del
Regno di Jugoslavia, gli albanesi
furono tenuti fuori perché musulmani.
Erano un elemento non slavo, auctotoni da secoli.
i erano islamizzati con cinquecento anni di dominio ottomano, perché pensavano e speravano di poter risolvere, illudendosi, tanti problemi con i dominatori. Questo fu il primo motivo a creare perplessità all’Europa di allora.
La seconda ragione era rappresentanta dall’esistenza di cinque entità territoriali nell’area, retaggio del dominio ottomano, in turco vilayet, che le grandi potenze avevano interesse a mantenere entro i confini pre-esistenti al Regno di Jugoslavia, delimitazioni ereditate dal passato. Lo scopo era di continuare controllare questi territori.
C’è una terza ragione. Quando gli albanesi si liberarono dei turchi e del giogo dell’Impero ottomano, subirono una grande ingiustizia da parte della vecchia potenza dominatrice, che li sfruttò fin quando era presente, poi fece “commercio” delle terre albanesi, tra Grecia, Serbia e grandi potenze occidentali, tra cui l’impero austro-ungarico.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il Kossovo continua a far parte della Jugoslavia, come regione autonoma della Repubblica socialista di Serbia, e non entra nella rosa delle 6 entità della Jugoslavia Federale (Serbia, Montenegro, Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Macedonia). Perché la volontà di tenere il Kossovo entro i confini della Serbia? Perché non creare un settima repubblica?
Di fatto solo nella Costituzione del 1974, Tito aveva in un certo qual modo uguagliato le due regioni del Kossovo e della Vojvodjna alle altre sei entità territoriali.
Sulla monarchia serba si creò la Repubblica Federale Jugoslava. I serbi rappresentavano il popolo più grande, e Belgrado era la capitale della Serbia e anche della Jugoslavia. La Serbia era troppo forte e Tito temeva di urtare, di andare contro un popolo costitutivo della Jugoslavia socialista. Per tali ragioni cercò una via di mezzo, con la quale da una parte il Kossovo restava dentro i confini della Serbia, una sua regione, e dall’altra cominciava a far parte della Jugoslavia, come elemento costitutivo, fino a rendere ciò effettivo nella legislazione e nella Costituzione del 1974.
Ci fu una rivolta armata, soprattutto nella regione di Drenica, e una resistenza, ma non ebbe esito alcuno perché si usciva dall’ecatombe della Seconda Guerra Mondiale. La gente era stanca, distrutta, non poteva davvero più combattere. Allora ci fu un continuo tentativo dei nostri rappresentanti politici all’interno della Jugoslavia, della Serbia e soprattutto del Partito Comunista Jugoslavo, di migliorare questo status fino ad ottenere tale miglioramento nel 1974. La Costituzione di quell’anno è un passaggio fondamentale perché venne creato un corpo presidenziale composto da sei repubbliche e due regioni autonome e si creò il consensus come unica possibilità per decidere qualsiasi cambiamento. Si trattava di un’eguaglianza di fatto delle due regioni. Ma questo non è durato molto a lungo perché morto Tito nel 1980, già nel 1981, esplose la situazione e venne nuovamente al pettine la questione del Kossovo.
I Serbi non erano pronti, come si vede purtroppo ancora oggi, a riconoscere una realtà di fatto, perché erano sempre stati il popolo privilegiato, il popolo più grande, quello più forte. E come tale pensavano di avere più diritti di ogni altro popolo.
In quali termini e perché venne alla ribalta la questione del Kossovo, dopo la morte di Tito?
Morto Tito, noi, come popolo non slavo, avevamo il desiderio di una maggiore autonomia. Di un’indipendenza dalla Jugoslavia, che è la terra dei popoli slavi del Sud. Già a partire da quel nome, non ci sentivamo parte della Jugoslavia. Sentivamo che le cose non potevano più andare avanti così.
Proponevamo un cambiamento democratico, che fu un movimento parallelo a quello di Lech Walensa e Solidarnosc;, anche se non sapevamo niente di quello che succedeva fuori dai nostri confini, non sapevamo di questi movimenti. Fu una rivolta prima di tutto studentesca, che lentamente si trasformò in una rivolta popolare. Infatti molte famiglie degli studenti scesero a dimostrare pacificamente, fino ad unirsi ad altre famiglia. Fino a coinvolgere tutto il popolo.
Purtroppo questo non fu capito correttamente, né interpretato dalla Serbia o dalla Jugoslavia nel modo migliore. Questo pacifismo democratico fu male interpretato, come separatismo, come desiderio di unirsi all’Albania, addirittura come fondamentalismo islamico. E fu represso con la forza.
Nel frattempo il mondo aveva altri pensieri e questo movimento rimase una cosa piuttosto interna.
Dal 1981 al 1989, passo dopo passo, avvenne la distruzione totale anche di quella autonomia che già di per sé per noi albanesi non era sufficiente.
Fino al 1989. Miloševic; era una figura creata soprattutto dall’Accademia delle Scienze e delle Arti della Serbia, appoggiato dalla Chiesa Ortodossa e dagli elementi nazionalistici che sarebbero venuti presto alla ribalta, creando purtroppo il male non solo per gli altri, ma anche per sé stessi. Il Comunismo era un internazionalismo fasullo che non dava molta libertà o possibilità di essere se stessi… Da un lato i serbi, 7 o 8 milioni, dicevano di essere uguali ai montenegrini, mezzo milione, dall’altro dicevano che la Costituzione del 1974 era stata imposta per distruggere la Serbia, quando in realtà dava pari diritti a tutti, popoli grandi e piccoli. La Serbia riteneva che ci dovesse essere un popolo grande, garante di questa realtà. Questi furono sbagli enormi della Jugoslavia, che aveva perduto un uomo carismatico, quale Tito, capace di tenere uniti tutti con lo slancio del combattente.
Io dico solo, con grande dispiacere, che se si fosse capito il grido dall’allarme che abbiamo dato nel 1981, non saremmo arrivati al 1989 e tanto meno al 1999, anno in cui la Nato intervenne per salvare il salvabile.
Qual era il progetto di Miloševic; per il Kossovo?
Autoproclamatosi vero e unico erede del comunismo, Miloševic; aveva in mente la Grande Serbia… Ridusse l’autonomia di scioperi e proteste, fino a revocarla del tutto nel 1989. La lingua albanese fu proibita, 200.000 albanesi furono licenziati, 350.000 fuggirono all’estero… Il 2 giugno 1990 il Kossovo si dichiarò repubblica indipendente. Un mese dopo Belgrado inviò 40.000 soldati in Kossovo.
Circa 700.000 albanesi furono “trattati” dalla polizia, ovvero messi sotto pressione perché si trasformassero in spie e collaboratori, per ottenere le informazioni necessarie a giustificare le condanne. Belgrado cercava di trovare gruppi terroristici, solo per sentirsi legittimata a condannare, dimostrando che i colpevoli di tutta la situazione in Jugoslavia erano gli albanesi del Kossovo.
Il movimento politico di resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova, eletto Presidente il 24 maggio 1992 con elezioni regolari, aveva un valore grandissimo. Noi non volevamo essere violenti. Solo con la nonviolenza avremmo voluto conquistare la libertà, perché la guerra causa la morte e quindi la guerra è la libertà dei morti e non la libertà dei vivi.
Ma non potevamo fare nulla. Eravamo totalmente esclusi dall’esercito jugoslavo, dalla polizia, da tutto. Chiunque, dopo il 1989, volesse continuare a mantenere il proprio impiego statale, doveva firmare di accettare la Serbia come proprio Stato, in quanto la Jugoslavia de facto ormai non esisteva più. E poiché molti albanesi non lo fecero, furono esclusi dall’esercito, dalla polizia, dalla scuola, dalla sanità, dagli impegni pubblici. Tutto era statale… e tutti ne furono espulsi. Si creò una situazione di grande disagio.
Miloševic; abolì anche la Vojvodjna e il Montenegro. Quindi raggruppò quattro unità della ex Jugoslavia: Serbia, Montenegro, Vojvodjna e Kossovo. Pensava che con questa metà avrebbe potuto ottenere nuovamente il controllo centralista, ricreare di nuovo un grande Stato. Questa fu la grande illusione di Miloševic;. Voleva essere il secondo Tito e creare la terza Jugoslavia. Voleva creare la Grande Serbia.
Quale fu la reazione degli albanesi alla revoca dell’autonomia da parte di Miloševic;?
La risposta della nostra gente fu una risposta straordinaria e passò per la Primavera del 1990. Realizzammo tre movimenti. Il primo fu il movimento contro la vendetta a favore della riconciliazione universale. Dicemmo al popolo e alla gente: “Qui le cose vanno peggiorando. Noi dobbiamo trovare per primi una purificazione interiore, cancellando le inamicizie, la tradizione delle faide e la vendetta, che non ci permettono di essere democratici. Noi cerchiamo che la democrazia sia riconosciuta dagli altri, ma non siamo democratici noi per primi, dentro!”.
A questo punto Anton Çetta fu la figura per eccellenza. Un uomo di grande saggezza, un uomo del folklore, un albanologo che conosceva molto bene la situazione perché aveva visitato tutta la regione alla ricerca della fraseologia, di tradizioni, della cosiddetta cultura popolare. Con i giovani di Peja, propose insieme alla Chiesa Cattolica e al vescovo di allora monsignor Nikola Prela, la riconciliazione universale.
Riuscimmo, grazie a Dio e grazie alla risposta della gente, a riconciliare in cinque mesi 1275 casi di vendetta. Fu un movimento straordinario, che vide, in un solo giorno, il 1 maggio del 1990, circa 600.000 persone su una popolazione di 2 milioni venire a celebrare la festa della riconciliazione, la festa della vita. Avevamo spiegato alla gente che con la vendetta si diffonde la morte. E anziché avere un morto, ne abbiamo un altro, e un altro ancora, senza arrivare a nessun punto.
Gli altri due?
Il secondo movimento fu quello della beneficenza.
Creammo l’Associazione Madre Teresa,
on lo scopo di offrire solidarietà ai bisognosi del Kossovo,
del Montenegro, della Macedonia, della Croazia.
Siamo riusciti a diramare quest’associazione.
Non aveva niente a che vedere
con l’ordine fondato da Madre Teresa.
Si trattava e si tratta di un’organizzazione
non governativa, che porta questo nome
per onorare la nostra Madre Teresa
e creare una rete di solidarietà in suo nome,
che aiutasse chi aveva perso il lavoro
dopo l’ondata di licenziamenti seguiti agli eventi del 1989.
Il terzo movimento fu quello delle sorella Qiriazi, con lo scopo di lottare contro l’analfabetismo. Per noi significava salvare la cultura, la tradizione, la lingua albanese. Con l’abolizione dell’autonomia del Kossovo, Miloševic; era riuscito ad ottenere, anche in ambito educativo e scolastico, che la cultura albanese fosse messa al bando. La Costituzione volle che la lingua ufficiale della Serbia fosse il serbo, e le minoranze non avrebbero avuto il diritto ad una scuola e un’educazione nella propria lingua, se non nelle elementari, e nelle medie, solo in casi molto particolari.
L’università bilinguistica, che era anche l’unica, voluta da Tito a Prishtina, fu praticamente abolita e la lingua ufficiale dell’università divenne il serbo.
Questi grandi movimenti hanno creato la matrice di quello che sarà Rugova, di quello che sarà LDK, che non fu un partito, ma una resistenza pacifica democratica.
Con essa abbiamo cercato di rispondere alle sfide del male, con un gesto di solidarietà, di reciprocità, di amicizia non solo tra di noi, ma coinvolgendo anche gli altri, cercando di disarmare la situazione molto tesa creata dalla Serbia.
Ibrahim Rugova, musulmano vicino ai cattolici, sognava un’indipendenza che passasse per la nonviolenza. La libertà non è arrivata per gli albanesi con mezzi pacifici. È arrivata dal cielo con i bombardamenti Nato. Che cosa non ha funzionato del movimento pacifista?
Al suo interno funzionò abbastanza bene. Quello che non funzionò lo dobbiamo ricercare all’esterno.
La disgregazione della Jugoslavia avvenne in un momento in cui l’Europa e il mondo avevano altri interessi, altri pensieri per la testa. All’inizio pensavano che ci volesse una mano forte per risolvere i problemi nei Balcani ed hanno appoggiato Miloševic;, senza aver capito chi fosse realmente. Non hanno appoggiato la dittatura, ma pensavano che un popolo grande e il leader di questo popolo, avrebbe potuto mantenere uniti i popoli nella Jugoslavia post Tito.
Quello che non ha funzionato è rappresentato dalla sensibilità dell’Europa e degli Stati Uniti. Non compresero fino in fondo il pericolo che covava questa scelta. Soprattutto le altre componenti della ex Jugoslavia hanno trattato la questione serbo-albanense come una questione interna, un conflitto tra due popoli e non hanno capito che il conflitto si sarebbe allargato inevitabilmente anche alle altre parti. Cosa che poi è successa. Abbiamo ottenuto una vittoria morale, nel senso che abbiamo sensibilizzato sia la ex Jugoslavia, sia in buona parte l’Europa e gli Stati Uniti, perché senza questa resistenza nessuno sarebbe mai intervenuto per salvare nel 1999 il Kossovo, che come popolo, non era più in grado di sopravvivere.
Io direi due cose fondamentali. Il nostro pacifismo era ed è rimasto valido. Tutt’ora. Perché con le armi si possono allontanare le parti e le inimicizie ma non si può cercare mai la pace. La pace non è mai frutto delle armi, degli eserciti, della polizia. È questione di mente e di cuore. Noi abbiamo espresso il meglio di quello che si poteva esprimere in tale senso.
Purtroppo nelle altre parti, a cominciare dalla Slovenia, passando per la Croazia, e arrivando alla Bosnia, il nostro movimento non venne accolto, e la reazione fu di armarsi dando inizio a quella che fu una rovinosa guerra che ha bagnato di sangue i Balcani per 10 anni. Già nel 1992 esplose la guerra in Slovenia, nel 1992-93 in Croazia. E poi l’inferno, il disastro in Bosnia, dove tutti erano contro tutti e dove realmente sono successe certe infamie che sono una vergogna per l’umanità intera. I popoli hanno combattuto tra di loro quasi fino allo sterminio.
Quello a cui siamo giunti noi con la strategia nonviolenta, fu di non causare un conflitto all’interno dei popoli. La guerra del Kossovo non fu una guerra degli albanesi contro i serbi o dei serbi contro gli albanesi. Ma fu una guerra preparata a tavolino da Miloševic; per salvare il salvabile. Aveva perso la Slovenia, la Croazia, in parte aveva perso la Bosnia. Non gli restava che usare il Kossovo, nell’idea di questa Grande Serbia, per mostrare al mondo di essere ancora forte, per salvare la pelle, salvare il salvabile e, secondo lui, salvare la sua dignità.
Lo stato etnico è una minaccia per la pace e la stabilità dei Balcani? Che valore hanno le sei stelline sulla nuova bandiera del Kossovo?
Lo Stato etnico è quasi del tutto impossibile da realizzarsi. Perché con questo miscuglio, con queste migrazioni che interessano i popoli dei continenti, di fatto siamo arrivati ad un pluralismo sia etnico, sia culturale, sia religioso.
Possiamo misurare quanto siamo noi stessi proprio nella diversità. La chiave della soluzione è l’unità nella diversità. Paesi e popoli puri non esistono e bisogna insistere sui valori e non insistere sulla nazione come valore unico. La nazione è uno dei valori. Ma non è il valore assoluto.
Soprattutto non dobbiamo cadere nella tentazione di considerare gli altri come nemici da combattere, perché questa fu la strategia di Miloševic;. La pulizia etnica è un’invenzione diabolica, perché pulizia vuol dire che l’altro non è puro e che devo espellerlo, cacciarlo via, se voglio essere me stesso. Questo è assolutamente inaccettabile sia dal punto di vista umano, sia dal punto di vista cristiano. L’altro è per noi il fratello o la sorella, o ancora di più, con la fede, l’altro è Gesù Cristo stesso. Per cui ci misuriamo se nell’altro vediamo la somiglianza con Dio stesso.
Oltre a questo pericolo, c’è quello di considerare il territorio come un possesso, Come il proprio giardino. Il pericolo di dire: “Questa è la mia terra mia, questo è il mio giardino”. È caduto ormai il feudalesimo, nel senso che la terra definisce l’uomo come proprietà, ed è caduta anche la visione della Nazione nella quale noi siamo dentro e gli altri ne devono restare fuori.
La tentazione di creare uno Stato feudale, basato sul concetto di “terra”, la tentazione di creare uno Stato nazionale in cui che la Nazione definisce lo Stato, sono assolutamente da evitare. La tentazione c’è e ci sarà, e per tale ragione noi dobbiamo essere molto chiari a dire alla gente: “Non è la terra quello che noi vogliamo, non è la Nazione quello che noi vogliamo. Vogliamo essere noi stessi senza mai discreditare o non accettare l’altro, nel suo legittimo diritto ad essere se stesso”. Se io ho un’identità personale, familiare, culturale, religiosa, devo riconoscere che anche l’altro ha il diritto ad averla.
Bisogna collaborare perché le minoranze restino se stesse senza essere manipolate, diventando serve nel senso moderno della parola. La servitù si crea purtroppo utilizzando le minoranze, le quali corrono sempre il pericolo di finire in una condizione di secondo grado. Non c’è un popolo di primo grado e un popolo di secondo. Non c’è nessun inquilino in Kossovo. O siamo tutti cittadini del Kossovo, e quindi uguali nei diritti e nei doveri, oppure è discriminazione. E noi vogliamo realmente che la Costituzione del Kossovo sia molto chiara su questo punto, molto precisa e molto democratica.
Oggi, nel Kossovo indipendente, è possibile che il perdono che ha investito centinaia di famiglie albanesi, investa anche i rapporti ancora tesissimi tra albanesi e serbi? Il perdono è un messaggio senza tempo? Che ruolo avrà la Chiesa ora?
La nostra Chiesa ha cercato in tutti questi anni di essere a un duplice servizio: al servizio di Dio e al servizio del popolo, senza distinzione, né nazionale né religiosa, perché noi, come albanesi, siamo fratelli, cristiani, cattolici e musulmani. Nel sangue, nella cultura, nella tradizione, nella lingua. Condividiamo tutto questo. Per secoli siamo stati tutti fratelli anche nella fede. Eravamo albanesi cristianizzati anche nella fede. Poi molti albanesi furono islamizzati a causa del dominio turco-ottomano, durato cinque secoli. E siamo fratelli cristiani con i serbi montenegrini, che sono ortodossi.
Da una parte abbiamo la grande opportunità di avere un dialogo interreligioso con il mondo islamico, e questo va abbastanza bene. Abbiamo incontri di vario genere e cerchiamo di collaborare. La risposta è molto positiva perché abbiamo un Islam moderato, nonostante gli sforzi di molti paesi islamici di sostenere il fondamentalismo: la maggior parte delle persone è rimasta com’è, e quindi doppiamente fratelli, come albanesi e come credenti monoteisti.
Dall’altra parte, siamo fratelli nella fede come cristiani, con i serbi-ortodossi, con la Chiesa ortodossa. Qui ci sono alcune difficoltà, che non sono di carattere religioso, ma piuttosto di carattere nazionale e politico.
Noi proporremo senza nessuna esclusione la riappacificazione e il perdono, senza andare a cercare il colpevole. Se vogliamo la pace dobbiamo riconoscere non solo il male che abbiamo causato noi ma fare una gara per liberarne l’altro. Non bisogna dire: “Tu sei il colpevole e io non lo sono!”. Senza fare processi per stabilire chi ha causato cosa, e perché sia successo, dobbiamo chiedere perdono e perdonare. Perdonare è inevitabile, essenziale per la sopravvivenza della pace, soprattutto per la cultura della vita e per la civiltà dell’amore che sono due pilastri del grande Papa Giovanni Paolo II e di Madre Teresa.
Vivere non vuol dire solo vivere fisiologicamente o salvare la propria vita. Significa dare un senso e un motivo alla vita stessa. E dare il giusto senso alla vita significa vivere in pace con se stessi, con gli altri, con Dio. Una triplice pace che può essere ottenuta soltanto con una vera e profonda conversione, riconoscendo che il peccato più grande è l’odio, e questo ha investito le nostre terre. Sconfiggere l’odio vuol dire non armi, non Nato, non polizia. Ma vuol dire valori universali, morali, spirituali per dire a se stessi e agli altri: “Voltiamo pagina, cambiamo pagina, scriviamo una storia nuova, la storia della solidarietà, la storia della reciprocità, la storia del dialogo e la storia della comunicazione”.
Questo vuole essere il Kossovo libero e indipendente. Un Paese modello di convivenza pacifica, interetnica ed interreligiosa, dove l’uomo come tale sarà il valore assoluto.
Il grande Rugova diceva “La politica non è matematica, non è questione di numeri, ma una questione di valori”.
Note:
Per approfondire:
Salvodi V., Gjergji L., Resistenza non violenta nella ex-Jugoslavia, EMI, Bologna 1993
Salvodi V., Gjergji L., Kossovo. Un popolo che perdona, EMI; Bologna 1997
Gjergj L., Madre della carità, Velar, Bergamo 1998 (La monografia di Madre Teresa tradotta in 13 lingue, considerata più completa al mondo, della quale Giovanni Paolo II chiese personalmente la traduzione in polacco)
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