Per la prima volta ho messo piede in una favela, precisamente nella comunità di Caçote, all’interno della regione urbana di Recife dove, ormai da due anni, è in pieno svolgimento il progetto “Favelas più vivibili”.
Tutti noi abbiamo una vaga idea di che cosa sia una favela, i media ne parlano spesso e molti film, come il famosissimo La città di Dio, sono ambientati proprio lì, ma quando ci si entra personalmente la sensazione è molto differente. Avevo sempre avuto l’immagine di una favela come quella baraccopoli maleodorante, con immondizia da tutte le parti, dove l’entrata è assolutamente sconsigliabile a qualsiasi persona che non vi abitasse, dove ogni giorno vi sono sparatorie, luogo di trafficanti e rifugio di ladri; Caçote è molto diversa anche se, purtroppo, altrove, la realtà qui descritta esiste.
Caçote, da una parte, grazie soprattutto alla presenza dell’Unione Europea e del ProgettoMondo MLAL, appare attualmente abbastanza organizzata a prima vista: la strada principale è lastricata, i rifiuti vengono raccolti periodicamente e sono presenti varie attività commerciali come piccole rivendite di vestiti, bibite e alimenti, molte case sono costruite con mattoni e cemento, alcune addirittura spiccano perché dipinte di svariati colori che vanno dal verde, all’arancione, al rosa. Dall’altra parte, e più ci si addentra nelle vie interne, invece, è molto povera: i rifiuti per terra, le case di lamiera e cartone, le fogne all’aria aperta, ho ancora nella mia memoria l’immagine di due bambini che non avranno avuto nemmeno tre anni, spingendo un carretto più grosso di loro mentre gli altri giocavano con un elastico, con delle biglie, con un ferro da buttare, con un pallone sgonfio che correvano nel fango.
La situazione a Caçote resta emergenziale: la rendita media è di 120€ al mese, una delle più basse tra i quartieri di Recife, qui la maggior parte della gente sopravvive raccogliendo lattine (per ogni chilo si ricevono circa 5 Reais), grazie alle borse famiglia disposte dal governo brasiliano, tramite la pensione di qualche parente, svolgendo in generale altri lavori informali.
Per questo motivo si è deciso di intervenire proprio qui dando la possibilità sia ai giovani di frequentare un corso di formazione ricevendo un salario per vivere ed imparando un mestiere, sia agli abitanti di avere la certezza di possedere la casa nella quale probabilmente vivono da quando sono nati. Il diritto alla casa è infatti la base che porta successivamente alla formazione di una cittadinanza attiva, di una coscienza civica, di una forza che tende alla difesa dei propri diritti, con l’intenzione vivere in un luogo migliore dotato dei servizi basici.
Accompagnata da Paolo che quasi due anni fa ha assunto il ruolo di Capo Progetto, sono stata nella sede della Comunità, una costruzione ristrutturata da poco grazie al lavoro dei ragazzi che hanno partecipato al corso di formazione per muratore. Sono stata accolta dalla rappresentante della Comunità che, insieme con altre donne ci ha portato a conoscere alcune persone la cui casa è attualmente in processo di legalizzazione.
Una delle cose che mi ha colpito è che è molto raro trovare una famiglia “tradizionale”: la maggior parte delle volte la donna è sola con una media di tre figli a carico, a volte il marito ha abbandonato la famiglia o è in prigione o sta lavorando da qualche parte. Il gruppo che ci accompagnava si allargava ad ogni angolo, abbiamo incontrato altre donne, un ragazzo che ha frequentato il corso di formazione, tutti erano molto curiosi di sapere che cosa stavo facendo qui in Brasile e solo alla fine sono riuscita a spiegargli che il mio ruolo era molto simile a quello di una stagista piuttosto che quello un finanziatore quale loro pensavano che io fossi.
Abbiamo camminato per le strade della Comunità, tante sensazioni correvano dentro di me in quel momento: voglia di prendere in braccio tutti quei bambini piccoli, spesso vestiti con solo il pannolone che mi guardavano timidamente dalle le inferriate delle case, voglia di aiutare tutte quelle persone che vivono in case costruite con materiali di fortuna e tanta umiltà da non riuscire quasi a fotografare la realtà, una timidezza nel fare pressione su quel pulsante della macchina fotografica che non avevo mai sentito, una paura di violare la loro privacy, di invadere il loro territorio e di ferire la loro personalità. È stata una esperienza molto interessante, che ha sfatato il mito delle favelas che conoscevo solo attraverso il cinema ed articoli di giornale, ho conosciuto delle persone che credono fermamente che ciò che stanno facendo migliorerà la situazione e che sempre ricorderanno il nome del ProgettoMondo MLAL e dell’Unione Europea con il sorriso sulle labbra.
“ Tante sensazioni correvano dentro di me in quel momento: voglia di prendere in braccio tutti quei bambini piccoli, spesso vestiti con solo il pannolone che mi guardavano timidamente dalle le inferriate delle case, voglia di aiutare tutte quelle persone che vivono in case costruite con materiali di fortuna e tanta umiltà da non riuscire quasi a fotografare la realtà, una timidezza nel fare pressione su quel pulsante della macchina fotografica che non avevo mai sentito, una paura di violare la loro privacy, di invadere il loro territorio e di ferire la loro personalità ”.
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