Il nostro viaggio nell’altra faccia del Kossovo indipendente inizia a Koloni, nella periferia di Gjakova. Percorriamo una salita incorniciata da sporcizia e rifiuti e raggiungiamo una distesa dove vivono poco più di centocinquanta famiglie rom, piene di bambini che corrono scalzi con piedini neri di fango, qualche volta inciampando dentro scarpe da adulto lunghe il doppio dei loro passi, dove annegano gambe scarne e graffiate.
I rom di Koloni vivono senza vestiti, senza cibo, senza acqua, senza elettricità, senza rete fognaria. I neonati non vengono registrati alla nascita. I matrimoni non sono ufficializzati. Le case di lamiere, eternit, plastica, neve, vento e pioggia che visitiamo accompagnante dal capo della comunità, sono circondate da distese d’immondizia. E non si tratta solo del ferro che per secoli i rom hanno lavorato e che ora raccolgono dai cassonetti per rivenderlo. Gjakova scarica parte dei suoi rifiuti in quelle lande kosovare senza benedizione.
I rom di Koloni vivono in un’enclave dimenticata, esattamente come tanti dei rom sparsi per un’Europa che propone al Kossovo modelli vincenti di politiche di rispetto delle minoranze e si fa portavoce di un senso civico dato per maturo, fondato spesso su troppe apparenze.
A Koloni e in tanti insediamenti rom i diritti si nascondono dietro alibi e inadempienze, liquidati con un eterno capro espiatorio che su alcuni popoli è marchiato a fuoco, e che ricorre in Kossovo e ovunque i rom si spostino. I loro diritti sono condannati da chi sentenzia sempre la loro volontà di vivere in quella smisurata miseria; sono cancellati insieme alle colpe di chi fa di loro un popolo che nessuno potrà forse mai capire nel bisogno di libertà incondizionata, nella gestione ariosa degli spazi, delle strade da percorrere, dei confini e delle frontiere da varcare, nel rifiuto del nostro tempo postfordista che non dà spazio a chi non vuole o non si sa adeguare a ritmi stressati che ingoiano la vita.
A Koloni l’unico spazio dove i bambini hanno accesso ad una qualche “educazione” che non sia quella ricevuta in famiglia, è un edificio colorato costruito nel 2000 e mandato avanti con il sostegno di alcune organizzazioni internazionali. Lì prendiamo parte ad una mattinata dedicata all’importanza dell’igiene, in una stanzetta piccolissima dove si accalcano odori acri e nauseabondi e circa cinquanta bambini. E in quei corpicini sporchi, vestiti di cenci laceri, le manine che la maestra invita a lavare di continuo con filastrocche fatte di ripetuti Pastroj duart! Lava le mani!, diventano piccoli guanti di raso che non superano il polso ma che chiedono di poter stringere con dignità la mano di chiunque a questo mondo.
E ti cedono volentieri un angolino per sederti anche tu, vicino a loro. Ti chiamano per nome, ti salutano divertiti e ti chiedono con gesti fantasiosi di trasformare i loro volti illuminati da occhi vivaci, in foto da portare dappertutto, per mostrare che in questo angolo di mondo dimenticato esistono anche loro.
Il centro si propone di fornire un’educazione che prepari i bambini alla scuola pubblica, offre sostegno psico-sociale all’intera comunità rom, educa all’igiene e alla salute, con grosse difficoltà legate alla carenza di materiale e strutture commisurate ai problemi. C’è anche una mensa dove possono ricevere un pasto solo centodieci bambini. Pochi rispetto a quelli che ne avrebbero realmente bisogno.
Mancando un piano urbanistico per l’intera area, molti potenziali donors non si avventurano a finanziare l’ampliamento degli spazi da destinare a nuove attività.
Gjyzel Shaljani voleva che vedessimo tutto questo prima di concedersi alla nostra intervista. A Koloni tutti la conoscono. Le vanno incontro a decine e in pochi secondi è circondata da bambini, donne, anziani che le chiedono sostegno e aiuto. È una delle pochissime donne rom ad essere impegnata ad alti livelli, una di quelle che le grandi organizzazioni non dimenticano mai di invitare alle loro tavole rotonde.
È una donna che difficilmente dimentichi: una manager delle battaglie di chi non ha diritti; una famosa intellettuale e attivista che parla inglese fluente, albanese, turco e serbo, e regala sorrisi e lacrime, le tante volte che si commuove. Tra una chiamata al cellulare ed una corsa sul taxi, non ferma le sue giornate se non a mezzanotte, dopo il lavoro come funzionaria al Ministero dell’Educazione, e il tempo che resta speso per la propria ONG.
Pranziamo in un ristorante dove porta gli amici più cari. E dove cena con suo marito, un funzionario dell’ONU giunto in Kossovo dall’India, che ha sposato per amore e al quale ha dato una bambina che di lui ha preso la pelle scurissima e i capelli talmente neri da brillare.
Raccontaci qualcosa di te… cosa ti ha portato ad essere la donna che sei oggi?
Quando ero piccola mia madre un giorno mi disse: “Sono un’insegnante, tuo padre è un coreografo. Tu vuoi fare la domestica? Ebbene, se non vuoi, devi andare a scuola. Altrimenti, se non ti va, ti dico: Fai come vuoi, pulisci e fai la serva tutta la vita!”. E io scelsi di andare a scuola.
Noi siamo stati sempre una famiglia integrata. Mio padre nel 1964 si rivolse alla municipalità di Prizren, acquistò un terreno e ci costruì sopra una casa. Io avevo due anni allora. I miei genitori erano entrambi poverissimi e sono riusciti a costruire il nostro futuro. Le scuole superiori le ho frequentate a Zagabe e a Belgrado e in questa città mi sono laureata in microbiologia molecolare. Io so che cos’è il razzismo. “Sei rom!”, mi dicevano a scuola con disprezzo.
Lavoro come un robot per dare al mio popolo condizioni di vita migliori, preparando progetti da presentare a ONG e organizzazioni internazionali che possano ascoltare la voce dei rom in Kossovo.
La tua gente, il tuo popolo, la tua comunità… chi sono?
I rom sono partiti dall’India circa 1000 anni fa e sono giunti nei Balcani 300 anni dopo, attraversando il Pakistan, la Turchia, l’Egitto, l’Iran. Si spostano… L’hanno sempre fatto. Appena scoppiava una crisi, una guerra, andavano via. Desideravano vivere in pace, non in mezzo ai conflitti. E ovunque sono stati, la discriminazione li ha colpiti.
Ci sono circa 5500 rom a Prizren, 300.000 nella ex Jugoslavia.
Per i rom il grande problema è l’educazione. Essendo analfabeti, i rom non trovano lavoro. E il lavoro diventa l’altro grandissimo problema. Come convincere le famiglie dell’importanza dell’educazione? “Chi sei tu per dirmi che devo mandare mio figlio a scuola? Chi mi da i soldi per comprare libri, quaderni e vestiti?”. Questo è ciò che mi chiedono.
Molti genitori trovano mille scuse o verità: dicono che hanno paura che i bambini vadano a piedi fino alla scuola più vicina perché temono le auto. Ma la triste verità è che moltissimi minori in età scolare vengono assoldati dalle loro stesse famiglie per raccogliere l’alluminio nei cassonetti dell’immondizia. E quei cassonetti sono più lontani della scuola.
Altri non li mandano perché non hanno i soldi per comprare vestiti, borse e il materiale che occorre.
Come si concretizza il tuo impegno per la tua gente?
Coordino un’ONG, Foleja, fondata nel 2005 che ha sede a Prizren. Ha già portato a termine 8 progetti sull’educazione all’igiene, sui diritti delle donne rom, ashkali ed egypti. Lavoro nel weekend nella nostra sede e organizzo training rivolti alle mamme e ai loro bambini. Arrivano tantissimi rom a chiedere aiuto per risolvere gravi problemi di fronte ai quali purtroppo mi trovo del tutto disarmata. Posso fornire i contatti delle istituzioni che si occupano nello specifico di quei problemi, con la speranza che qualcuno si occupi di loro. Sono le istituzioni che per prime devono assicurare i diritti e i servizi alle persone in difficoltà.
Le NGO dei rom sparse per il mondo purtroppo non hanno tanti contatti l’una con l’altra. Mi piacerebbe creare un network. Dobbiamo lavorare insieme, senza paura di condividere le poche risorse. Dobbiamo impegnarci per dire “No! Basta! Siamo poveri ma non siamo animali. La mia pelle è scura ma non sono diverso da te. Ho la lingua per parlare. Sono un essere umano anch’io!”.
Il Kossovo indipendente è un neoStato multietnico. Che importanza ha essere rappresentati da una delle sei stelline nella nuova bandiera, insieme agli albanesi, ai serbi, ai turchi, ai bosgnacchi e ai gorani(1)?
Il Kossovo è sempre stato multietnico! Non è di certo una novità! Al suo interno siamo stati una comunità purtroppo troppo spesso manipolata. I rom si sono sempre occupati di lavori faticosi, fisici. Sono sempre stati domestici, servi.
Ora dobbiamo migliorare la nostra condizione ma la transizione sarà difficile: come integrarsi? Come incominciare? Da dove? Sono parecchio preoccupata per il futuro. Con l’indipendenza cambierà qualcosa per le comunità più fragili solo se gli internazionali continueranno a monitorare la situazione.
Ora siamo uno Stato indipendente. Ma nessuno parla delle condizioni in cui vivono i rom, della loro povertà. Uno Stato è multietnico se tutti hanno pari diritti. I rom non hanno lavoro, non vanno a scuola, vivono condizioni di vita terribili. Non sono integrati come altre comunità. Si deve cercare una formula reale d’integrazione.
Se non abbiamo il cibo, se non abbiamo il lavoro per comprare il pane, sarà la selezione biologica ad uccidere questo popolo affamato.
Rom, egypti e ashkali… siamo un unico popolo. La stella sulla bandiera è importantissima. Significa riconoscere che anche noi esistiamo. Il Governo ha promesso che farà tanto per le minoranze. Per queste sei stelle. Ha preparato un documento strategico per l’integrazione di rom, ashkali e egypti che affronta sette tematiche: educazione, salute, affari sociali, lavoro, cultura, diritti delle donne. I rom si aspettano che si faccia di più per loro, perché siano integrati quanto le altre minoranze. Aspettiamo che tale documento venga implementato, e siamo pronti a cooperare in maniera attiva con le istituzione e con gli attori internazionali per cambiare lo stato attuale delle cose.
Note:
1. Gorani: gruppo etnico di origine slava che vive tra l’Albania, la Macedonia ed il Kossovo meridionale.
Bosgnacchi : popolazione slava presente in Bosnia Herzegovina, Kosovo, Serbia e Montenegro.
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