Caschi Bianchi Kosovo
Una minoranza che vive in salita
Dove il turco lascia spazio all’albanese, Islam e cattolicesimo convivono a Prizren, dove tra cattedrali e moschee, feste e santi da ricordare, i nomi propri tradiscono un’identità e rendono difficile anche trovare lavoro, e dove gli artigiani cattolici si consacrano all’arte della filigrana e a madre Teresa.
Scritto da Sara Cossu
In una città dove i rimandi a sultani, pasha, dervishi danzanti sono una litania che si ripete più frequente dei cinque richiami dei muezzin, si assaggia un passato che ha fatto del Kosovo un lembo di terra ottomana. Un passato che ha fatto di Prizren uno spazio dove la storia ha deciso di riconfermarsi ogni giorno in un sorso lento di çaj e di parole turche che scorrono lungo le viuzze, nei negozi, nei ristoranti, nell’intimità di una casa o di una moschea, a voler ricordare che l’identità è un organo vitale che sopravvive ad imperi scomparsi pulsando di vita propria. Continua a soggiornare dentro regni inventati e repubbliche senza Dio, a volte come scomodo inquilino. Resiste a guerre, genocidi, pulizie etniche. Marko, Françesk, Marja, Pashkë, Domenik, Glorja, Gjergji, Dila sono un altro volto del diritto all’identità. Sono un modo di essere “altro”. Sono una tessera del mosaico di fedi che colora i Balcani. Le note cristiane le senti dentro nomi di evangelisti, apostoli, feste da santificare. E le senti nel loro crescendo se ti avvicini alla cattedrale e decidi di percorrere nuovi sentieri che ti tolgono il fiato. Dove il turco lascia spazio all’albanese. Dove l’islam lascia spazio al cattolicesimo. Vivono quasi tutti in una salita alla quale pochi mesi fa un gruppo di operai improvvisati ha deciso di restituire la dignità. Era una colata di fango con la pioggia, una lingua di ghiaccio e neve con il gelo, un tappeto di polvere con il caldo e l’afa. Ma era ed è una discesa libera di bambini scalzi dietro un pallone che rotola verso il basso, una corsa sfrenata di risate, pattini consumati, biciclette arrugginite e coraggiose con le gomme a terra, ai lati tanti dei viottoli che si spezzano e si ricompongono, superato quel che resta di un muro o scavalcato un cumulo d’immondizia. Quando pensi che la tua passeggiata sia arrivata ad un limite invalicabile, o pensi di dover tornare indietro, o quando ti domandi come fa la gente a vivere in salita ogni giorno, arrivi in cima, vedi tutta la città con il cuore che batte veloce per la fatica, capisci che i vicoli ciechi talvolta possono trasformarsi in sconfinati panorami inattesi e affascinanti, fatti anche di tanti minareti e un solo campanile. I portali tarlati, le architetture di merletti lignei e soffitti a cassettoni intarsiati che si staccano sotto i colpi dell’incuria e dell’abbandono, rimandano alle mani di fabbri e falegnami ottomani, qualche balcone accenna ad uno stile liberty un po’ spartano e fuori luogo. Il resto è distruzione. Prima del ’99 ci vivevano soprattutto serbi poi fuggiti lontano e velocemente. E di loro restano case bruciate, portoni protetti da filo spinato, poltrone rovesciate di riposi interrotti, cucine di cibi lasciati sul fuoco, credenze impolverate che intravedi dentro quel che resta di mura domestiche. E quelle che sono rimaste in piedi sono abitate dai cattolici che le hanno acquistate con i saldi di un Kosovo che ha pignorato la storia a volte di un’etnia, a volte di un’altra, rimettendo in vendita a prezzi stracciati spazi di vite senza colpe né responsabilità. Serbi e cattolici si sono contesi anche tre metri quadri di preghiere, oggi cumulo di calcinacci, candelabri rovesciati, immagini sacre sbiadite e ammuffite, cornici impolverate che avevano un giorno reso omaggio a qualche maternità. Puoi sbirciare all’interno di ciò che resta di un uscio lacero che qualcuno ha dimenticato di chiudersi alle spalle, ma l’ha prima sprangato di filo spinato, nel rispetto delle regole di un gioco a somma zero, che non permette più a nessuno di accendere una candela a Sveti Pantelija e Shën Nikolla, i due santi, l’uno dei serbi ortodossi, l’altro degli albanesi cattolici, a cui venne consacrata quella chiesetta in momenti diversi. Lì di fianco una fontana di acqua sempre gelida, una scritta in ottomano e una in cirillico la sovrasta. Molti cattolici vi sono giunti dalle campagne, alcuni ancor prima del conflitto, altri sono fuggiti dalla vendetta di sangue del kanun, e lì sono nati i figli e i nipoti che si considerano oramai cittadini. Molti hanno visto le fiamme dell’Uçk bruciare le case dei serbi a fianco alle proprie, molti hanno perso la casa e sono stati aiutati a ricostruirla con gli aiuti umanitari. Chi è arrivato dopo il ’99 ha occupato macerie trasformandole in abitazioni, e da povero e disadattato cerca di costruirsi un nuovo presente fatto di mogli che non lavorano, tanti bambini da far diventare grandi e un incubo chiamato ricerca di un lavoro. Quelli conosciuti come latini, cattolici da tempi immemorabili che restarono fedeli alla Chiesa di Roma di fronte all’ortodossia della Chiesa di Bisanzio, per cinquecento anni d’Impero ottomano non si convertirono all’isl&_#257;m sfidando persecuzioni ed emarginazione sociale, e scelsero di continuare a vivere dentro Prizren, fianco a fianco agli albanesi che invece divennero musulmani. Ma stavolta, la guerra del ’99, il suo orrore e la miseria sono stati più ostinati di quel coraggio durato secoli, e la maggior parte è scappata in Croazia o all’estero, raggiungendo chi l’aveva già fatto nel decennio precedente sull’onda d’incertezze e di presagi di dolore. Dentro stime di circa duecentomila abitanti che tutti i dati continuano ad approssimare, in una città a maggioranza musulmana, i cattolici sono rimasti poco più di 1500, stando ai censimenti affidati ad un parroco che si reca nelle case a benedire, a scoprire anziani soli, povertà nascosta di persone che nessuna statistica vorrà mai andare a trovare. E come lamentano tanti di loro, Lushë, Augustin, Shtjefën, Gjon, Luka, Pal, Kristian, che siano essi padri di famiglia o giovani ancora pieni di speranza, se dentro il tuo nome porti il segno inconfondibile del cristianesimo, trovare lavoro, in una città di disoccupazione e favoritismi, è diventato ancor più difficile. Trovi anche chi lentamente migliora la propria vita, le ragazze iniziano a studiare all’università, la libertà e l’emancipazione cominciano a diventare parole ricorrenti tra i vocaboli delle donne. Consacrati all’arte della filigrana, gli artigiani cattolici scandiscono i giorni invocando i santi del Kalendari Katolik appeso alle loro spalle. Nel loro laboratorio non manca mai un’immagine di Nëna Tereze, Madre Teresa, che qui smette di essere di Calcutta e indossa le vesti di una grande piccola donna albanese, che partita da Skopje è diventata il deputato degli ultimi agli occhi del mondo intero. E in qualche angolo remoto fa sicuramente capolino una Madonna a proteggere con discrezione le loro mani e la precisione di fili intrecciati per dar vita a farfalle e croci che con turchesi e coralli rendono ancora più preziosa la loro appartenenza ad una comunità. Ad un’identità. Ad una minoranza. Non importa se per ora viva in salita.
Note: Per sfogliare la galleria fotografica, vai a: ../indici/ind_125.html
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