Betlemme: la neve e i martiri
Non è facile capire il valore che la cultura araba attribuisce al martirio, ma nemmeno il motivo di tante informazioni falsate, di tanti arresti arbitrari e della grande sofferenza, spesso gratuita, a cui le famiglie palestinesi sono costrette da anni di occupazione militare.
Stamattina Betlemme si è svegliata coperta da un candido bianco manto di neve.
Mi svegliano le grida dei bambini nelle strade…non c’è scuola oggi, né lavoro, né taxi…niente. Tutta la città è in festa. La neve è l’evento dell’anno. Da due settimane tutti ne parlavano e tutti l’attendevano, come i nostri bambini attendono Babbo Natale il 25 Dicembre.
Apro la finestra e mi arriva una bella pallata di neve in faccia seguita da una risata dei bambini da sopra il tetto della casa di fronte. Fa male, è gelida e pungente, ma il dolore mi ricorda di essere viva…e mi attacco a questa dolorosa e piacevole sensazione di sentire la vita ancora legata a me.
A volte qui la gente dimentica di essere viva.
A volte la vita in un paese che l’occupazione sta cercando di annientare non ha più valore, neanche se è un ragazzino di 17 anni a perderla.
Erano le 17 e 30 di lunedì scorso e mi recavo al corso di arabo a Betlemme. In ritardo come al solito decido di prendere un taxi. Strani movimenti avverto nell’aria: sirene di ambulanze o polizie, confusione di macchine e blocchi per le strade. Ma sono cose che capitano spesso qui, e oramai non ci si fa più caso. Il mio autista parla al telefono e sembra preoccupato, ma non mi dice niente e arriviamo a Betlemme per un’altra strada. “Per la strada principale oggi non si passa”, mi dice.
Nella città non c’è nessuno. Strade deserte. Negozi chiusi. Un vuoto e un silenzio pungenti. Non è la Betlemme di sempre, con la sua confusione, i suoi profumi e i suoi colori.
Sto per tornare indietro quando un ragazzo mi apre da dentro, mi prende per un braccio e mi tira in fretta all’interno dell’edificio.
Fa cenno al taxi di andarsene e richiude subito la porta. Al corso siamo in pochi, molti meno del solito. Avverto qualcosa di strano ma nessuno mi dice niente e facciamo lezione come sempre.
Solo alla fine del corso scopro cos’è successo.
Alcuni militari israeliani sono entrati nella tarda mattina in città, a pochi metri dal centro dove frequento il corso di arabo ed hanno occupato alcune case.
Stavano cercando qualcuno da arrestare, cosa che capita spesso qui. Non trovandolo in casa hanno iniziato ad evacuare tutte le case dei vicini, costringendo intere famiglie a stare fuori ad aspettare per ore ed ore guardando i militari mettere a soqquadro le proprie case. Dopo alcune ore degli scontri sono iniziati.
Dei bambini hanno iniziato a tirare sassi alle jeep e ai carri armati. Gli israeliani hanno risposto col fuoco. Kusay Al Afandi, 17 anni del Deheisha Refugees Camp è caduto a terra, colpito allo stomaco, con in mano ancora la sua pietra.
Perché tirare un sasso ad un carro armato? Cosa può fare una pietra contro un carro armato?
È qualcosa che noi stranieri non riusciamo a capire, ad accettare. Dopo poche ore la vita riprende come sempre, la paura finisce e si fa finta di niente.
Il giorno seguente c’è sciopero generale. Taxi, università, uffici e negozi chiusi ogni volta che muore un martire. Ma nessuno ne parla per la strada. La neve che sta per arrivare sembra molto più importante ed interessante.
Il mio amico Shadi del Deheisha Refugees Camp mi invita al funerale del ragazzo. C’è una cerimonia particolare per i martiri. Una specie di marcia fino al cimitero alla quale partecipa tutto il campo. Fuori c’è una bufera di pioggia e neve. Fa davvero freddo.
Ma il tempo non impedisce a uomini, ragazzi, anziani zoppicanti col bastone, donne e bambini di accompagnare la salma del martire fino al cimitero.
Alla cerimonia in moschea non riusciamo ad entrare. C’è troppa gente. Attendiamo fuori assieme a centinaia di persone. Bandiere rosse e palestinesi sventolano nell’aria, assieme a cartelloni con la foto del ragazzo con la scritta “Morto come partire per la Palestina”.
La salma è avvolta nella bandiera palestinese e trasportata con una barella da alcuni ragazzi.
Iniziano gli spari nell’aria e gli inni ad Allah e alla Palestina.
Chiedo al mio amico di tradurre per me.
“Allah è il più grande. Oh martire, non dimenticheremo mai il tuo sangue per il Paese” e ancora “ A Gerusalemme andremo come martiri in milioni”.
Non riesco a capirne il significato. Di fronte alla morte, le nostre sensazioni e le nostre preghiere sono così diverse. Per me è una vita troncata. Una vita perduta.
Mi chiedo come sia possibile convertire il dolore in preghiere di esaltazione alla grandezza di Allah e alla liberazione della Palestina, ma non so darmene risposta. Mi sento così lontana ma cerco di rispettare i loro sentimenti e le loro preghiere. Seguiamo la marcia fino ad un piccolo cimitero all’interno del campo. È il cimitero dei martiri. C’è troppa gente e fa molto freddo. Decido di tornarci il giorno seguente con più calma.
L’indomani un mio amico messicano viene a trovarmi da Gerusalemme.
Sfogliamo insieme il giornale israeliano Haaretz che mi ha portato. Ritrovo la notizia del giovane martire, ma nell’articolo viene riportato che il ragazzo è stato ucciso mentre tirava una bomba ai soldati entrati a Betlemme per arrestare un ricercato terrorista appartenente ad un pericolo gruppo armato. In pochi secondi un sasso è diventato una bomba e così viene propagandato l’odio verso i Palestinesi e legittimata la fine di una giovane vita.
Non c’è scritto però, e neanche io lo sapevo fino a quando non ho intervistato un anziano rifugiato del campo, che due suoi fratelli sono nelle carceri israeliane da diversi anni, che hanno subito un processo arbitrario e sono stati condannati per terrorismo senza prove (o almeno, le prove ce le hanno, come sempre, ma sono dei fascicoli segreti, che né il detenuto, né il suo avvocato sono tenuti a vedere).
Non c’è scritto che la famiglia non ha da molto tempo più notizie di loro, non c’è scritto che sono entrati nella loro casa diverse volte, costringendoli a stare fuori al freddo per ore per cercare delle prove che probabilmente non sono mai esistite e mai esisteranno.
Non c’è scritto che l’ultima volta che sono entrati era quattro giorni prima, per cercare il padre e arrestarlo e non trovandolo hanno evacuato per diverse ore tutte le case dei vicini durante la notte.
Non c’è scritto infine, che una pietra non può fare niente contro un carro armato, se non esprimere il proprio dissenso per una ingiusta e ingegnosa occupazione.
L’anziano del campo mi ha raccontato una storia.
Durante l’occupazione nazista in Francia un anziano signore cominciò a picchiare i carri armati tedeschi col suo bastone. Lo presero per pazzo e gli domandarono cosa stesse facendo.
Ma lui era un poveraccio e non aveva altri mezzi, se non il suo bastone, per dire ai tedeschi “non vi voglio qui”. Cosa possono avere i bambini? “Ogni cosa presa con le armi, non potrà mai tornare indietro attraverso le negoziazioni”, mi ha detto.
Betlemme è completamente bianca. Ci sono bambini ovunque sulle strade e sui tetti delle case che giocano a pallate di neve e costruiscono pupazzi con le bandiere palestinesi o la Kefia di Fatah o del PFLP.
Mi inoltro nel campo con Shadi e Juan, il mio amico messicano, cercando di schivare la guerra delle pallate di neve. Arriviamo al cimitero. Ci sono una quarantina di martiri. E altre tombe ancora vuote, tutte ricoperte dalla neve.
Due sono ragazzi uccisi dagli Israeliani mentre entravano in Israele per lavorare, prima della seconda Intifada. “Quando era ancora possibile lavorare in Israele” – mi spiega Shadi.
I soldati li hanno colpiti e hanno poi fatto esplodere i loro corpi lungo una strada. Così hanno dimostrato che erano terroristi, suicide bomber, come si dice in inglese. Una volta raccolti i loro corpi l’Autorità Palestinese e i familiari delle vittime hanno però poi trovato le ferite dei proiettili israeliani.
A volte è una fortuna riuscire a riavere i corpi delle vittime. Le salme di molti detenuti che muoiono in carcere e dei suicide bomber vengono deportate nei “cemitery numbers” cimiteri segreti all’interno di zone militari israeliane.
A nessuno è permesso entrare. Non ci sono nomi, né lapidi. Ogni fossa ha una targa recante un numero. I numeri al posto dei nomi, come il numero di stelle nella carta d’identità palestinese volute dagli Israeliani per indicare se sei musulmano o cristiano, mi ricordano un’altra storia, un’altra storia di crimini e violazioni che una delle due parti ha già vissuto in Europa.
Uno era un anziano signore che durante il coprifuoco era uscito di casa per cercare del pane per la propria famiglia ed è stato colpito a fuoco.
Un altro era un ragazzo che aveva sepolto i primi due martiri del campo e aveva lasciato scritto che se fosse stato ucciso dagli Israeliani avrebbe voluto essere seppellito di fianco al suo amico, nella tomba ombreggiata dagli alberi. Due settimane dopo è stato ucciso durante un attacco in un villaggio qua vicino e ora riposa a fianco del suo amico, sotto i suoi alberi.
Ognuno ha una storia. Una storia che ha un nome e una voce e che non deve restare seppellita dalla terra e dalla neve.
Vicino alla tomba del ragazzo morto due giorni fa ci sono i suoi amici. Gli regalano una Kefia e un ramoscello di ulivo, simbolo non solo di pace, ma dei frutti rubati di questa terra.
Ieri sera il mio amico Shadi mi chiama verso mezzanotte. È a casa di un suo amico nel campo. Non riesce a raggiungere Ibdaa, il centro dove lavora alla radio la notte. Duecento militari israeliani sono entrati ancora nel campo bloccando ogni entrata ed ogni uscita. A nessuno è permesso circolare nelle strade. Stanno ancora cercando il padre del ragazzo.
Hanno evacuato diverse famiglie fino alle quattro di notte e, non trovandolo, hanno arrestato altri due ragazzi. Una è una ragazza di 20 anni. Nessuno sa il perché. E forse mai si saprà.
L’euforia della neve nel campo si è squagliata stanotte. Ma la vita riprenderà normale come sempre. Del resto questa è l’occupazione, e la maggior parte dei Palestinesi sotto occupazione ci sono nati.
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