• Cb Apg23, 2008

Bangladesh Caschi Bianchi

Lutto, religione e vita

Accettare la morte fa parte della vita: questo sembra più semplice in Bangladesh, dove le tradizioni e gli usi rivelano che religioni diverse, depositate le une sulle altre, non scompaiano mai del tutto, ma rimangono come parte indissolubile dell’identità storica degli individui.

Scritto da Daniele Spinelli

Tempo fa chiacchieravo con un ragazzo di Chalna che attualmente studia all’università di Dacca grazie ai fondi stanziati dalla Missione, tornato a visitare i parenti in occasione delle festività natalizie. Mi colpivano le parole che usava per descrivere la mentalità del suo popolo.

“Il nostro comportamento e i nostri stati d’animo” mi raccontava, “sono come la natura. Un attimo prima siamo felici, ma un attimo dopo possiamo essere tristi o preoccupati. Possiamo essere laboriosi al mattino e fannulloni o contemplativi al pomeriggio, o viceversa. Possiamo diventare improvvisamente silenziosi e freddi dopo una calda accoglienza. Possiamo arrabbiarci e magari subito dopo riappacificarci senza rancori. Le nostre emozioni possono cambiare così come cambia il tempo”.
Riconoscevo la natura iperbolica di una definizione del genere ma tuttavia sapevo, da quanto avevo visto fino a quel momento, che c’era qualcosa di vero.

E qualche giorno dopo, quasi a dimostrare la verità della sua affermazione, è capitato un avvenimento che credo valga la pena di essere raccontato.

Appena sveglio uno dei ragazzi che vive nelle case del quartiere cristiano, para in bengalese, costruito dalla Papa Giovanni XXIII, uno dei tre insediamenti sviluppati dalla comunità insieme a quello hindu e a quello musulmano, mi informò con profondo rammarico che sua nonna era morta durante la notte. Era stata investita otto giorni prima da una motocicletta sulla strada vicino a casa sua.
Questo tipo di incidenti è molto comune da queste parti, e questo fatto non mi stupisce granché, dal momento che in Bangladesh, per quanto ho potuto constatare, il sistema stradale, fatto di regole, sanzioni e segnaletica, è assolutamente inesistente.
Da questo punto di vista Dacca, la capitale, è un vero e proprio inferno automobilistico. L’ho sperimentato, per fortuna un’unica volta, la sera in cui sono atterrato all’aeroporto, 19 giorni fa. In città le corsie non vengono rispettate, così come la rarefatta segnaletica. In una megalopoli di 9 milioni di abitanti le strade sono congestionate dal caos. La maggior parte delle auto, dei pullman e dei camion sono semidistrutte, non senza un perchè. La guida è a destra, retaggio della dominazione britannica e alla sinistra delle automobili c’è la corsia dei risciò, biciclette destinate al trasporto passeggeri. Questo mezzo di trasporto, un taxi a tre ruote, aveva perso per me ogni alone magia ed esotismo già alcuni anni fa quando lessi l’illuminante capolavoro di Dominique Lapierre “La citta’ della gioia”, libro-inchiesta che narra la vita e la tragedia di un riscioman, della brutalità del suo lavoro e del sistema di affitti usuranti che stanno dietro a questo business. Quando poi, appena giunto a Dacca, ne ho visto uno schiacciato da un pullman mi sono ripromesso che sarebbe stato un mezzo che, per quanto possible, avrei fatto di tutto per evitare.

Si tratta di un’esperienza che non sono in grado

di descrivere né far immaginare adeguatamente.

Ma insieme a questo spettacolo,

che per un attimo mi ha fatto rimpiangere

il traffico di Milano, ho ricevuto

immediatamente una grande lezione.

Era incredibile vedere, in mezzo a questo

contesto apocalittico, lungo i marciapiedi

o in mezzo alla strada nel tentativo di

raggiungere la parte opposta della carreggiata,

con gli occhi che bruciano per

gli scarichi di tutte quelle auto, la calma olimpica,

il distacco ed il divertimento con cui

i pedoni o i venditori di popcorn ai semafori,

la maggior parte bambini scalzi, convivono con tutto questo.

Ma la cosa più incredibile era vedere agli angoli delle strade i poliziotti osservare la situazione con serafica curiosità, fumando una sigaretta o chiacchierando con un amico. Ed era con grande divertimento che cercavo di immedesimarmi con uno di questi funzionari del traffico, pensare come lui, con alle spalle uno stipendio di forse 10 euro al mese e un sistema statale precario e corrotto, osservare quell’ingovernabile caos e semplicemente lasciarlo andare, da solo, come si lascia andare un fiume che scorre.

Era la stessa calma e tranquillità sfoggiata con grande stile, al posto di costosi abiti firmati, dagli abitanti di Chalna, la cittadina di 10.000 anime in cui si trova la Missione.
Il mistero che resta da scoprire è perchè, una volta al volante di un auto, di un pullman, di una moto o di un risciò, il tranquillo popolo maschile bengalese si trasformi improvvisamente in un diavolo, e senza nessuna eccezione, chiunque abbia per le mani un mezzo di locomozione cominci a correre all’impazzata, tenendo una mano sul volante o sul manubrio e l’altra sul clacson o il campanello per far scostare tutti quelli che osano andare più piano di lui.

Il sistema dei trasporti di Chalna è completamente diverso da quello della capitale. Non ci sono automobili.
E viene quasi il sospetto che la maggior parte della valanga di soldi che la cooperazione internazionale spedisce ogni anno al Paese si fermi nella capitale, lì dove alloggiano i politici e le loro famiglie, che ricada in minima parte sulla popolazione della megalopoli e che si fermi lì. È infatti incredibile vedere come le automobili, per quanto rotte possano essere, scompaiano improvvisamente appena usciti fuori da Dacca. E così a Chalna ci si muove o in barca, per chi lavora sul fiume, oppure in moto, bicicletta o risciò, che qui chiamano van, leggermente diversi da quelli della capitale, perchè oltre al trasporto passeggeri sono destinati al trasporto di quintali di riso e di pesce.
Ma anche qui, la situazione dei trasporti, seppure incommensurabilmente più vivibile e piacevole della capitale, non è affatto rosea. Le strade non sono asfaltate, a parte quella principale che però è ormai una buca dietro l’altra. La segnaletica non esiste e le strade che connettono la campagna e le vie interne al villaggio hanno un’unica minuscola carreggiata, su cui devono convivere pedoni, moto, bici e risciò.

E come a Dacca, un pedone per strada non conta nulla di fronte a due, tre o quattro ruote.

Dopo questo breve excursus sul sistema viabilistico bengalese, è tempo di raccontare l’esperienza di cui parlavo all’inizio, avvenimento che serve a dare sostanza all’asserzione di quel ragazzo sulla mentalità dei suoi connazionali.
L’anziana signora fu uccisa dal motociclista incosciente dopo il calare della sera.
Sono venuto a sapere che, anche se le strade che si snodano per la campagna sono strettissime, esistono due sensi di marcia. E la donna è stata investita perchè camminava dal lato sbagliato. Così la polizia non ha dovuto intraprendere nessuna forma di indagine e il motociclista non ha contribuito per nulla alle spese del funerale, come scavare la buca, comprare i dolcetti, il riso e il pesce per il rinfresco.
Appena saputa la notizia, il falegname della missione, Poncos, ha cominciato a segare e inchiodare delle assi di legno per preparare la bara, mentre nella para cristiana i vicini di casa della defunta hanno cominciato a scavare la fossa nel piccolo e nuovo cimitero del villaggio.
E così sono stato invitato ad assistere al funerale.

Insieme al nipote e ad altri parenti, verso mezzogiorno, ci siamo incamminati dietro il van che trasportava la bara appena ultimata.
Il ristretto corteo era serio e silenzioso ma nient’affatto lugubre. Sarà la loro modalità di affrontare la morte oppure il sole che batteva sulle nostre teste, ma il clima che c’era era caratterizzato dalla solita lenta, contemplativa aria che si respira ogni giorno di fronte ad un qualunque avvenimento, dalla barca che non va, ad un vecchio in una capanna che sta morendo, a dei bambini che giocano a cricket nel fango.
Arrivati alla casa della defunta, dentro il piccolo giardinetto antistante l’abitazione c’era tutto il quartiere. Una ressa incredibile. Fatta di volti seri ma sopratutto curiosi.

L’anziana signora era stata avvolta in un lenzuolo bianco, che le lasciava scoperto solo il viso, segnato con della cenere. Nonostante fosse un funerale cristiano e non hindu, il delicato profumo d’incenso che aleggiava nell’aria e che copriva l’odore della decomposizione in atto sotto il sole e la colorata corona di fiori intorno al collo della donna, mi hanno fatto pensare a come le culture e le religioni si depositino le une sulle altre, ma non scompaiano mai del tutto, essendo parte indissolubile, esteriore o interiore, dell’identità storica di un individuo.
Tutti volevano vedere il corpo e la preparazione del cadavere prima della sepoltura. Anche il marito e le sorelle della defunta, più che rattristati mi sembravano dominati da questa smania di guardare, con una curiosità profonda verso ogni cosa: elemento che mi colpisce, mi incuriosisce e a volte infastidisce di questo popolo, soprattutto se lo paragono alla frenetica cecità della popolazione milanese.
Deposto il corpo nella bara, il nutrito corteo si è mosso alla volta del cimitero. Qui, mentre si finiva di scavare la fossa, oltre alla curiosità c’era addirittura aria di festa tra gli improvvisati becchini, che oltre a scherzare da dentro la cavità, accanto ad essa, probabilmente per scongiurare la paura della morte, paura che anche se non palpabile come nella società occidentale esiste anche qui, avevano modellato con il fertile terreno argilloso ricavato dalle operazioni di scavo, un satireggiante viso con pizzetto, intento a fumare una sigaretta
se non addirittura il bhang, droga parecchio diffusa tra la popolazione della zona.

Dopo le ultime preghiere di saluto alla donna, calata la bara, nel momento di inchiodare per sempre il coperchio, il clima è improvvisamente cambiato. I parenti e i vicini più stretti della donna hanno cominciato a piangere a voce alta. E’ stata tra le esperienze più strane che mi siano capitate in Bangladesh per il momento.
Il silenzio e il rispetto per il dolore sono finalmente calati sul gruppo. In quel momento, al posto di tutta la confusione che aveva dominato la cerimonia, nel camposanto si udivano soltanto il gracchiare dei corvi sugli alberi e la sofferenza dei parenti.
Poi mentre le donne piangenti venivano allontanate e accompagnate verso il banchetto preparato per l’occasione, sotto lo sguardo commosso del marito, che seduto lì vicino fumava una sigaretta, i pochi superstiti hanno ripreso a scherzare mentre lanciavano con energia i pezzi di argilla dentro la buca per ricoprire la cavità e la bara contenenti le spoglie dell’anziana signora.
Mentre si ultimavano le operazioni di copertura, qualcuno ha portato i caratteristici dolcetti impregnati di sciroppo di zucchero, gelapi, che tutti hanno mangiato imboccati da chi li offriva, per evitare di sporcarli con le mani infangate.

Uscito dal cimitero ho ritrovato tutto il quartiere, che nel giardino della casa di un parente della defunta, stretto intorno alle sorelle della donna, riprendeva normalmente la propria vita, con i bambini che giocavano, le donne che lavavano i panni nel lago d’acqua comunitario, il pukur, e i maschi che parlavano tra loro, accettando, come ogni essere umano prima o poi si trova a dover fare, la vita e la morte, la salute o la malattia.
Ma guardandoli, per un momento, mi è venuto il sospetto che lo sapessero fare molto meglio di me.

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