Scegliere e vivere la nonviolenza: don Oreste, costruttore di pace
“Gli uomini hanno sempre organizzato la guerra. È venuta l’ora di organizzare la pace!” L’insegnamento che don Oreste ha lasciato con la sua vita trova fondamento nel suo essere profondamente nonviolento e antimilitarista, perché vivere a fianco degli ultimi non basta, bisogna combattere le strutture che creano l’ingiustizia.
L’impegno per la Pace ha rappresentato una costante della vita di don Oreste Benzi. A livello pubblico e mediatico non appariva come un tema centrale, in quanto, specialmente negli ultimi tempi portava avanti battaglie concrete, volte soprattutto a contrastare la tratta degli esseri umani finalizzata allo sfruttamento sessuale, a sostegno dei minori, del diritto alla vita. Ma il fondamento su cui poggiava ogni sua lotta era proprio la continua, profonda, spirituale convinzione che per rimuovere la cause che determinano l’ingiustizia è necessario scegliere, applicare, vivere la nonviolenza. Don Oreste Benzi. Foto: archivio Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Che si impegnasse per la liberazione delle schiave o lottasse per il diritto dei minori ad una famiglia, dei barboni ad una dignità, era proprio il suo essere nonviolento,pacifista, antimilitarista la radice e la forza di ognuna di queste lotte. Era questo il suo criterio di lettura dei “segni dei tempi”: l’incarnazione della preghiera sul piano della storia. “Se si sta con Dio – scrive – si sente il grido dei poveri che a Lui sale. Quando non si sente più questo grido vuol dire che c’è qualcosa che non funziona, che quel rapporto con Dio va un tantino migliorato.” E come stare pienamente con Dio se non si mette a fondamento di questo la nonviolenza evangelica, la scelta di stare sempre e comunque con gli ultimi non solamente peralleviarne la quotidianità ma per combattere le strutture di peccato che creano lo sfruttamento, il degrado, la morte?
“Crediamo che non basti mettere la spalla sotto la croce del fratello, a chi fabbrica le croci occorre dire di smetterla. Non si può dare da mangiare all’affamato e poi andare allegramente a braccetto con chi affama. L’impegno per la giustizia è dunque fondamentale. Noi ci rivolgiamo a chi ha il potere di opprimere o di liberare perché siano rimosse la cause dell’ingiustizia. Questa visione ci porta nel cuore di tutte le vicende storiche. Nel nostro modo di agire seguiamo il vangelo che invita a riprendere e a correggere chi sbaglia. Se non ascolta, facciamo la denuncia pubblica, se poi rimane ancora sordo, interveniamo anche con manifestazioni e occupazioni. Sempre nello stile della nonviolenza, ma ugualmente decisi.” (1)
Così scrive il don nel 2001 in una lettera all’allora Presidente del Consiglio, in cui chiede l’istituzione del ministero della pace:“Condividendo direttamente la vita degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei minori senza famiglia. Cerchiamo di far arrivare la loro voce ovunque, specialmente a chi ha il potere di liberare ed opprimere. (…)
Questa lettera vuole essere appunto una lettera della strada, un grido di chi non ha il potere di contrattazione. Avrei voluto che tra le fonti che lei ha ascoltato per l’elaborazione del suo programma di governo avesse ascoltato anche i barboni, i genitori dei tossicodipendenti, i dimessi dal carcere, gli zingari. Di tanti ministeri esistenti, avrei voluto che lei ne avesse aggiunto un altro: il ministero della pace. Da quando l’uomo esiste la terra non ha mai cessato di bere il sangue umano. Gli uomini hanno sempre organizzato la guerra. È arrivata l’ora di organizzare la pace. Questo ministero dovrebbe coordinare una politica di pace di tutti i ministeri esistenti; un ministero trasversale per organizzare la pace.
La società attuale è violenta. In essa la guerra è strutturale. Gli individui, i gruppi, le grandi concentrazioni economiche, cercano i proprio interesse senza tenere conto degli altri. Non viene cercato il bene di tutti, ma lo schiacciamento degli altri. L’antico adagio latino, mors tua vita mea, è l’aspirazione dei gruppi di potere tra loro. Ogni concorrente è un potenziale nemico. In questa logica la società è fabbrica di poveri che vengono coltivati per essere ammortizzatori sociali nelle ricorrenti crisi economiche. Il volontariato si limita a “fare qualcosa” per le vittime di questa guerra continua, contribuendo paradossalmente a fare nuove vittime. Non basta dare un pezzo di pane all’affamato, ma è necessario individuare gli affamatori e agire perché smettano di affamare. Non è sufficiente mettere la spalla sotto la croce di chi soffre, bisogna far mettere di fabbricare croci. E’ ipocrita parlare di oppressi, di emarginati, di handicappati, di poveri, senza smascherare chi opprime, chi emargina, chi fabbrica poveri.”
Dal cuore di Dio il suo impegno per la pace
La sua instancabile azione si nutriva dunque dall’incontro con Gesù nella preghiera che, ripeteva, è l’arma più rivoluzionaria che abbiamo a disposizione. Non gli interessava lo spiritualismo, la devozione, il culto. Operava in Gesù per “sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo…” ( Is 58, 6 – 11).
Citava sempre il biglietto da visita del Cristo così come in Luca, 4, 18-19: “mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore”
La sua ispirazione in ogni ambito, quel Gesù che dice:“Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”, che chiede di perdonare 70 volte sette, che ha scommesso la nascita della Sua Chiesa su una comunità di peccatori e traditori; che dialoga con le prostitute, i pubblicani, i peccatori, che dice a Pietro di rimettere la spada nel fodero, Gesù principe della pace annunciato dal profeta Isaia.
Il richiamo alla coerenza personale
E’ stato presente ed ha animato molte delle campagne italiane per la pace degli ultimi 30 anni, sempre con quel richiamo, a tratti apparentemente fuori luogo o eccessivo, ad una coerenza personale. Non ha mai omesso interventi duri contro qualsiasi guerra l’Italia abbia combattuto.
Nella campagna “Pace da tutti i balconi”, in occasione dello scoppio della guerra in Iraq, il suo forte appoggio si mischiava ad una grossa preoccupazione perché, diceva, “è facile esporre una bandiera… più difficile scegliere quotidianamente la pace. La pace come scelta concreta, lo sporcarsi le mani con i poveri, lottare per la giustizia, rinunciare ai privilegi”.
Un impegno a tutto campo, l’obiezione di coscienza
Sin dall’inizio è stato continuo e forte il suo impegno per la promozione e lo sviluppo dell’Obiezione di Coscienza al servizio militare in Italia, perchè gli obiettori, in coerenza con la loro scelta, potessero intervenire in contesti di guerra, per una politica estera italiana come strumento e contributo ad una “pace lungimirante”, per la promozione di una difesa non armata e nonviolenta: La Comunità Papa Giovanni XXIII nel 1974 fu il primo ente in Emilia Romagna a convenzionarsi con il Ministero della Difesa per consentire ai giovani obiettori di svolgere il servizio civile nelle proprie strutture. Don Oreste credeva che una scelta di condivisione in casa famiglia 24 ore su 24 avrebbe cambiato la loro vita. Infatti, per molti, fu proprio così.
Negli anni ’70 e ’80 in cui la scelta dell’obiezione al servizio militare era una
concessione del Ministero della Difesa, don Oreste lottò duramente perchè divenisse un diritto, e perchè il servizio civile non fosse gestito in maniera punitiva. Presenziava alle marce, ai digiuni, gli incontri al ministero della Difesa, alle raccolte di firme. Il Ministero punì addirittura questo suo impegno, negando per un certo tempo l’invio di ragazzi in servizio civile alla comunità Papa Giovanni XXIII.
Sentiva che l’essenza di questa scelta era la disobbedienza civile nella lotta contro la legge ingiusta. E allora con passione animò le lotte dei “suoi obiettori” che tanto hanno contribuito a fare la storia italiana dell’obiezione al servizio militare, con il coraggio alla don Milani: Ribellarsi ad una legge ingiusta pagando in prima persona.
In queste occasioni diventava un “sovversivo appassionato.” Memorabile il sostegno pubblico ad alcuni ragazzi in servizio civile della Comunità che con atti di disobbedienza, lottarono per equiparare la durata del servizio civile a quella del servizio militare, contro le precettazioni d’ufficio e perchè l’obiezione fosse un diritto, da potere esercitare anche all’estero, nei conflitti armati e non. Anche grazie al suo contributo, con la fine della leva obbligatoria, è stata approvata la legge sul servizio civile volontario. Continui sono stati a questo proposito i suoi viaggi a Roma, l’ultimo lo scorso luglio, presso l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, per sottolineare la necessità che il servizio civile esprima sempre più concretamente una scelta forte di solidarietà, di cittadinanza attiva e di pace, volta alla difesa del Paese e dei suoi figli più deboli.
Per le missioni di pace all’estero
I primi anni ’90, in piena guerra dei Balcani, un gruppo di obiettori in servizio civile propose una campagna per recarsi in disobbedienza civile nei Balcani per sostenere le vittime del conflitto. Il don era in prima fila, “istigatore” alla pace. Molti giovani in servizio civile della Comunità Papa Giovanni andarono in Croazia ed in Bosnia senza autorizzazione ministeriale. In quei momenti lui sognava. Sentiva la forza del fatto che avrebbe cambiato la storia. Fu così. Nacque l’Operazione Colomba. La Papa Giovanni si espose moltissimo, in solitudine, per questa lotta. In seguito fu indetta la “marcia dei 500 a Sarajevo” con la presenza di altri giovani in servizio civile e prese inizio un
movimento che coinvolse finalmente altri enti di servizio civile. Dopo alcune denunce a piede libero e l’avvio di alcuni procedimenti penali a carico di un gruppo di obiettori di coscienza, don Oreste fu chiamato dalla Presidenza del Consiglio per contribuire a scrivere il primo testo di un decreto di “sanatoria” delle situazioni di illegalità. Da allora la lotta è continuata, molti altri ragazzi in servizio civile, insieme a numerosi volontari che fecero una breccia nel contesto sociale e culturale dell’epoca, finalmente andarono in missione di pace all’estero con l’Operazione Colomba non solo nei Balcani ma in Cecenia, in Chiapas, a Timor Est, alla marcia a Bukavu, nel Congo…
Allora sono nati i Caschi Bianchi.
Don Oreste ha creduto, lottato e operato fino ad oggi per promuovere i caschi bianchi non solo attraverso i progetti che la comunità Papa Giovanni ha in tutti i continenti, ma anche nelle sedi opportune, perchè la dimensione dell’intervento nonviolento in situazione di conflitto armato o strutturale, e dei Corpi Civili di Pace, connaturale a questa scelta, sia non solo salvaguardata, ma promossa e rafforzata.
In Italia infaticabile “attivista” per la pace e per una politica estera di pace
Tanti sono i suoi interventi, le sue prese pubbliche, la partecipazione a manifestazioni. Ogni anno o quasi, in occasione dell’approvazione della legge finanziaria dava il suo contributo per una “ finanziaria di pace”. Più volte a questo proposito incontrò personalmente i vari ministri della Difesa che in questi ultimi 20 anni si sono succeduti. In queste occasioni fu accusato di irresponsabilità, di mancanza di amor patrio, di disfattismo, perchè con la sua semplicità candida chiedeva di diminuire le spese militare e aumentare quelle sociali. Protestò e lottò di fronte ad una politica italiana che da un lato vendeva armi ovunque e dall’altra partecipava alle missioni militari internazionali “umanitarie” nei conflitti in cui venivano usate le armi italiane (e non solo). L’ultima, forte, presa di posizione è stata contro l’ampliamento della base aerea dell’aeroporto “Dal Molin” a Vicenza.
Fin dall’inizio la comunità Papa Giovanni fu coinvolta nella campagna per l’Obiezione alle spese militari.(OSM) . Con la lucidità e la profezia che lo caratterizzava il don unì questa forma di obiezione a quella alle spese per l’aborto, quindi una doppia obiezione, a favore della vita.
Dagli anni ’90 ad oggi la sua azione di pace travalicò i confini nazionali
Allo scoppio della I guerra del Golfo precisò che per il cristiano l’unica forma di difesa poteva essere una difesa non armata e nonviolenta e invitava ad approfondire con la vita una ricerca sulla difesa nonviolenta.
Fin dalla nascita dell’Operazione Colomba cercò di stare vicino ai volontari visitandoli a Ploce, nei primi anni ’90, sul fronte croato – serbo. Spesso ricordava la messa da lui celebrata ad Acteal, in Chiapas, luogo della strage, o l’incontro (carico di tensione ma anche di vita) con i volontari ad At-Tuwani quando decisero di rimanere in Cisgiordania, nonostante fossero stati vittime da poco di un’aggressione o quando confidò la sua paura di un possibile attacco dei ribelli mentre passava la notte a Minakulu, nel villaggio del nord Uganda in cui operava e viveva l’Operazione Colomba.
Intenso fu il suo impegno di presenza e dialogo con le istituzioni estere, nazionali ed internazionali, nei paesi in conflitto: gli incontri con il governo italiano perchè desse un contributo reale alla risoluzioni dei conflitti, il rapporto privilegiato con lo Stato della Repubblica di San Marino, di cui era Consigliere per gli Affari Umanitari. In questa veste incontrò la mediatrice ufficiale del conflitto Nord ugandese e diede disponibilità dello Stato a supportare un dialogo di pace tra il governo i ribelli dell’LRA (Esercito di Resistenza del Signore).
L’impegno per la pace nella Chiesa
La sua instancabile azione si è espressa parallelamente anche all’interno della Chiesa, chiamato da tante, tantissime diocesi ad animare veglie, liturgie, preghiere per la pace. “Una Chiesa che non si schiera, si schiera con i più forti”, diceva. Per questo la sua voce da cristiano urlava la contrarietà alla guerra, agli eserciti, al commercio delle armi.
Una cristianesimo che impone la scelta di liberare l’oppresso facendosi carico
dell’ingiustizia che subisce: il Go’El biblico che non fa vendetta per i torti subiti dai propri fratelli, ma ristabilisce l’equilibrio spezzato, rivendicando la dignità del fratello oppresso. Ogni fratello ha l’obbligo di mettersi al fianco del fratello caduto in schiavitù, nella vocazione a Cristo. Da qui il don ebbe l’intuizione del cammino di condivisione del “Progetto Go’El”, una scelta che si radica nella nonviolenza del Vangelo e si esprime in un impegno di lotta ed un sostegno per l’affermazione dei diritti dei più deboli.
Note:
1. Cf. V. Lessi, Con questa tonaca lisa. Intervista a don Oreste Benzi, San Paolo, 2001
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