Welcome to Israel!
Israele e i Territori Palestinesi accolgono il visitatore con muri di separazione, filo spinato, armi spianate. I ragazzi israeliani militano nell’esercito per due, tre anni, e coltivano un grande desiderio di evasione e di normalità, e i Palestinesi custodiscono le loro storie, di diritti negati, migrazioni forzate e desiderio di non essere dimenticati.
Non credevo fosse così difficile prendere un autobus per Gerusalemme. Ma quel giorno ho impiegato circa sei ore per raggiungere il mio hotel nella zona ebraica della città dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
“Everything is difficult here. Welcome to Israel!” Queste sono state le prime parole in inglese che mi ha rivolto un ragazzo israeliano una volta uscita dall’aeroporto.
Prima il colloquio al foreign passport, durato più di un ora, a ripetere sempre le stesse cose a persone diverse, con la sensazione che qualsiasi cosa dicessi non avrebbe comunque mai quadrato.
Tra un “Come with us” e un “Wait here” sono riuscita ad ottenere, quasi come premio per la mia resistenza allo stress psicologico, un bel timbro israeliano per un permesso turistico di tre mesi.
L’aeroporto era immenso, tantissima gente da tutto il mondo ma soprattutto tanti militari armati ad ogni angolo, ascensori, scale, uscite…
“Bene -ho pensato- così so a chi chiedere informazioni per Gerusalemme.” Avevano tutti una bella divisa verde, un giubbotto antiproiettili, un bel mitra in mano, ma nessuno di loro sapeva dove prendere l’autobus per Gerusalemme.
Tutto era scritto in ebraico il che rendeva le cose ancora più difficili.
Il primo autobus mi ha lasciato lungo una superstrada. Credo che l’autista volesse dirmi qualcosa sull’autobus da prendere, ma a gesti era difficile capirsi. Ho aspettato circa due ore, due lunghe ore intervallate da pulmini verdi che si fermavano e scaricavano ragazzi della mia età in divisa militare alla fermata.
Erano i ragazzi che tornavano a casa dopo aver svolto il loro servizio militare, che in Israele significa tre anni per i ragazzi e due anni per le ragazze. Due, tre anni della propria vita dedicati a servire lo stato.
In quelle due ore ho pensato a come sia stata fortunata a nascere in Italia piuttosto che in Israele, a poter decidere sulla mia vita, poter scegliere come spendere al meglio questi anni piuttosto che passarli in divisa militare, armata, probabilmente in qualche check point a chiedere carte d’identità e permessi a persone che vorrebbero semplicemente entrare nel loro paese.
“Per noi è normale –mi ha detto il ragazzo che aspettava l’autobus con me –noi siamo cresciuti così. Israele ha tanti nemici e dobbiamo poter difenderci. Voi europei non potete capire perchè la vostra situazione è diversa. Voi non ne avete bisogno.”
Sono veramente così diverse le nostre normalità?!
Ma forse i giovani israeliani non sognano di dedicarsi ad altre cose come noi europei?
Parlando con Kfir ho scoperto che sta lavorando in un ristorante per mettersi da parte un pò di soldi e partire per l’Australia. Lui il servizio militare lo ha terminato lo scorso anno.
Lo avevano mandato a Gaza, e quella è stata l’unica volta che è entrato nei territori palestinesi.
Più della metà dei giovani israeliani sogna di lasciare il proprio paese.
A Gerusalemme si respira una bella area, di festa quasi.
Ma ognuno nasconde dentro di sè una grande paura e una grande voglia di evadere o forse di poter semplicemente condurre una vita normale. Gli Israeliani non possono entrare nei territori palestinesi, se non durante il loro servizio militare, il che significa che non conoscono cosa significhi vivere li.
Dal mio appartamento si può ammirare un paesaggio bellissimo fatto di colli e villaggi bianchi sparsi qua e là in modo disordinato; ma la prima cosa che si ha davanti agli occhi se si guarda verso ovest è un bellissimo ed ordinatissimo insediamento israeliano. (…) Tanto bello, che quasi stona.
È abbastanza recente, mi dicono. Costruito negli anni ’90.
Fino ad allora quella terra era palestinese, e i bambini del villaggio vi andavano a giocare tra gli ulivi.
Ora c’è un bel muro (è attualmente in costruzione) a separare queste due terre. E dove non c’è ancora il muro, una bella rete di filo spinato come attorno alle basi militari, quasi per ricordarci che siamo ancora in guerra.
I coloni, e gli Israeliani in generale, non possono entrare nella West Bank, e tantomeno i palestinesi possono entrare negli insediamenti e in Israele.
Così ogni giorno essi si vedono, si riconoscono, sanno di stare a meno di 2 kilometri l’uno dall’altro, magari si odiano anche, ma non potranno mai conoscersi.
Io ho la fortuna di avere un passaporto italiano e posso spostarmi abbastanza liberamente, ma chi vive qua è confinato per tutta la vita.
I Palestinesi sono molto gentili ed accoglienti, ti offrirebbero anche il mondo se lo avessero, ma purtroppo molti hanno ben poco da offrire materialmente. Ognuno di loro però ha una storia da raccontarti, una storia fatta quasi sempre di sofferenze, di diritti negati, di migrazioni forzate, di violenze subite, di separazioni familiari, di sogni infranti.
Ognuno di loro ha un vissuto così intenso da riuscire a riempire in 10 minuti tutta la tua giornata.
Hanno voglia di raccontare, hanno bisogno di raccontare.
Hanno bisogno di non dimenticare e di non essere dimenticati.
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