Scritto da Daniela Testa
Ho amato questa città. Avvolgente, inestricabile, incapace di mantenere le distanze. L’ho vista aggrapparsi, abusiva e soffocante, mattone dopo mattone, alle punte dei piedi dei giganti della Cordillera Real, che appoggiati a questo formicaio chiassoso con il riserbo, il pudore e la pura bellezza dell’altopiano, la incorniciano in un abbraccio di neve e roccia, così inedito in pieno centro cittadino.
Ho amato questa città. Di escrescenze deformi e bernoccoli di cemento adibiti a case, deposti nel grembo di questa conca materna, oltre la quale la Bolivia diventa troppo fredda, comincia a rarefarsi e lentamente si congeda nella solitudine intatta dell’altiplán. Da lei mi sono lasciata accogliere, colmare di gioia folgorante e di rabbia indignata. Lei mi ha stupita, non ha mai smesso di farlo neppure quando ho iniziato a sperimentare la calda sensazione di appartenerle. L’Illimani quotidianamente riflesso negli occhi, colosso di quelle Ande ‘che sono Dio’, è uno splendore cui non si fa abitudine.
Ho amato la semplicità radicale delle tante vite che densamente la popolano, i caldi colori dei suoi tessuti, la smisurata creatività della sua economia informale, l’originalità della sua rivisitazione della lingua del colonizzatore, la vitalità delle sue tradizioni, la sua orgogliosa essenza indigena – stuprata, eppure intatta – così visibile nei tratti ed udibile nell’impenetrabile melodia dell’aymara degli autoctoni e nel quechua della povera dignità delle immigrate potosine, le cui mani rugose di freddo porgevano ogni sabato alle mie uno sgualcito bicchiere di plastica o una bottiglia di Coca Cola di fortuna tagliata a metà, affinché li riempissi con qualcosa di caldo. Negli occhi, una gratitudine che io, piena di debiti nei loro confronti, non merito.
Chi dà e chi riceve? Le mie sofferenze tutt’ad un tratto così veniali e ridicole di fronte ai piedini nudi e alle guance screpolate delle loro stupende creature. Riceverle negli occhi è un privilegio che ti scuote, t’insegna cosa non conta e ti ricorda che la miseria è molto più di una mancanza.
Ho amato le “bestioline” del carcere di San Pedro ed i loro ‘malviventi’ genitori, cui ho distribuito il corpo di Cristo, io, che per inciso, non credo nella simbologia di un corpo che si manifesta in acqua e farina. Con una cella per casa, si deve far fatica a restare bambini e a credere in un Dio carico d’amore. Niente di paragonabile alla poca che è richiesta ad un casco bianco nell’istante in cui si spoglia, oltre che della giacca per la consueta perquisizione previa all’accesso a quest’insolita struttura penitenziaria praticamente auto-gestita, praticamente non gestita, della sua appartenenza alla categoria di ricco-occidentale-buono-moralmente-integro. Che tra gli ultimi ci si va, se ci si riesce, senza consolidate posizioni in gerarchia, nudi di titoli, di lauree, di fedine penali illibate, con lo sguardo vergine di giudizi, scrupoli, sentenze e potere. Da fratelli.
Ho amato questa città, costellata di persone, di incontri e di storie vissute. La Paz ha battezzato il mio incontro con quella diversabilità che lascia un dono in chi in essa s’imbatte. Ana, Lucio, gli altri angeli dalle fattezze umane, me li porto dentro con il loro fagotto traboccante di spontaneità, felicità remota ed inafferrabile, malgrado la mente o le membra birichine non soddisfino il criterio dell’efficientismo occidentale, stimato oltre l’effettiva importanza.
Quelli a La Paz sono stati poi mesi di vera, personale redenzione. Il quotidiano contatto con i ragazzi di San Vicente, affetti da quei problemi alcol-correlati che hanno scandito la mia vita nella dipendenza di un padre che i ricordi d’infanzia mi restituiscono sempre ubriaco, ha estirpato il rancore e mi ha avvicinato a lui, e a loro, ci ha reso fratelli in una sofferenza condivisa perché vissuta, senza più bisogno di distinzioni tra vittime e carnefici. Pezzettini delle loro storie così simili alla mia, a dispetto delle latitudini. Se è servito a vivere questo, pur potendo retrocedere nella vita e togliere la ferita dell’alcolismo dai miei primi vent’anni, non lo farei.
Tenerezza e amore per i cuccioli della casa-famiglia, riflesso di me da piccina, voglia di proteggerli dalle umane debolezze dei genitori, vengono di conseguenza.
Ed in questo confuso feriale dell’esistenza, tra casa-famiglia, carcere, comunità terapeutica, come non gridare grazie per tutte le altre persone mai ordinarie che mi sono ritrovata dentro agli intrecci più quotidiani ed abituali dell’esistenza, persone che vivono una fedeltà profonda verso gli ultimi, che del binomio amore per l’uomo concreto – adorazione del Santissimo è la parte indefettibile.
Ho amato quest’anno, umana confusione di forza e debolezza, grande e non retorica occasione di crescita. Che il grido dei poveri continui a ‘tormentarmi’ – a ‘tormentarci’- è l’augurio più sentito che faccio alla mia vita. In altre parole, che il viaggio non finisca. Si prolunghi ‘in memoria, in ricordo, in narrazione’. E in impegno.
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