In linguaggio tecnico credo si possa definire “azione diretta di interposizione non violenta”, o qualcosa del genere. È successo questo pomeriggio, mentre camminavo nella via centrale di Astrakhan, Uliza Kirova. Sto accompagnando Angelica e Nastia(1) al corso di ginnastica correttiva, e per arrivarci a piedi passo davanti alla Sberbank Rossija, la banca centrale della città.
Davanti all’ingresso ci sono della graziose panchine verdi e delle aiuole che si intonano con lo stemma della banca, tutto curato nei minimi dettagli. Mentre cammino mi accorgo di due uomini sul marciapiede vicino all’entrata che se ne stanno in piedi a ridere e a fotografare col telefonino, sposto lo sguardo e vedo che l’obiettivo è un barbone seduto proprio su quelle panchine laccate, di fronte a loro.
Uno dei due uomini è un “okhranik”, il custode, lo riconosco dalla divisa. L’altro forse è un amico o un collega, vestito casual. Sono giovani. Il barbone è un uomo di mezza età molto sporco, pare ubriaco, tiene vicino a sé un borsone logoro. A tratti risponde ai due uomini che lo canzonano, a tratti la testa ricade sul petto e fissa le scarpe lacere.
Le bambine ed io passiamo in fretta davanti a loro per non arrivare in ritardo. Nastia mi chiede se ho notato il fatto che “due idioti” stanno ridendo e fotografando un barbone sulla panchina. Il primo impulso è quello di fermarmi, non so bene mossa da quali sensazioni, però sento subito che non posso lasciar perdere una situazione del genere. Mi volto indietro e fisso nella mente l’abuso davanti al quale sono passata. Pochi metri e arriviamo al policlinico, il tempo di salutare Nastia ed Angelica, dire loro di andare che io le raggiungo in pochi minuti, e sto già tornando indietro.
L’istinto mi porterebbe a rivolgere la parola in malo modo a quei due giovani. Invece arrivo di fronte alla scena, stacco la spina della mia emotività e vado a sedermi proprio di fianco a Serghej. I due restano sorpresi, all’inizio non capiscono. Li fisso e chiedo loro di smettere di fotografarmi. Il sorriso si spegne sulle loro labbra, mi rispondono di spostarmi su una della altre panchine se non voglio essere ripresa, c’è posto. “Ma io voglio stare proprio qui, vicino a lui. Quindi smettetela.”
Allora le cose cambiano. Cominciano a capire che non mi sono seduta là per caso. Mi metto a parlare con Serghej, gli chiedo da quanto tempo lo stanno infastidendo, gli dico di non preoccuparsi, che sono lì per aiutarlo. Mi fissa con due occhi blu intensissimi, sono pochi secondi ma quello sguardo mi sembra carico di un significato che a parole non si può esprimere. “Grazie”, mi risponde.
“Quel coso(2) non può stare qua, non può dormire su queste panchine. Qui ci sta seduta la gente”, mi dice il custode piuttosto infastidito.
“Innanzitutto non sta dormendo, è seduto e sta parlando con me. E poi ha diritto quanto me e lei di stare qui seduto”. Mi accendo una sigaretta.
“Cooosa? Diritto? Queste persone non hanno diritti. Che diritti hanno? Deve andare via da qua e basta.”
“E’ una persona come me e lei, per cui ha gli stessi diritti miei e suoi e di ogni cittadino di starsene qui. C’è per caso una legge che lo vieta? Mi dica che legge è perché io non la conosco”.
“Ragazza è un discorso inutile. Andatevene da qua, non ci potete stare”. L’amico mi fissa estremamente nervoso, nel frattempo qualche passante si ferma a guardare.
“E’ scritto nella Costituzione della Federazione Russa che i barboni non possono stare seduti sulle panchine davanti alla Sberbank Rossij? Roviniamo forse il paesaggio? Lei sta dicendo qualcosa di grave.”
“Beh allora con lei ragazza non ci parlo, se vuole assomigliare ad una ragazza innanzitutto la smetta di fumare e poi magari ne riparliamo. Basta, con lei non ci parlo. Dai Misha lascia perdere, non vale la pena. Difendono i barboni…gli stessi diritti…bah…”
“Meglio, non è con lei che voglio parlare. E in ogni caso non sono fatti suoi quello che io debba smettere di fare o meno. Se avesse più rispetto per le altre persone lei potrebbe assomigliare ad un custode, ma evidentemente non conosce la parola ‘rispetto’. Lasciateci in pace!”
A quel punto lascio perdere i due, che si spostano di un paio di metri e continuano a guardarci e fare commenti ad alta voce. Chiedo a Serghej dove vive, e scopro che è uno di quelli che ha come punto di riferimento la stazione. Gli spiego che faccio parte di un’associazione che cerca di aiutare la gente che vive in strada, che due volte a settimana distribuiamo dei pasti gratuitamente, gli spiego in quali punti della città. Noto che i due stanno ascoltando la nostra conversazione e ridono di noi.
Serghej puzza, ha il piede destro malconcio, le mani tremanti. Sta smaltendo la sbornia, ma è in grado di sostenere una minima conversazione. Gli spiego che è meglio allontanarsi dalla banca, perché per ragioni di sicurezza potrebbero chiamare la polizia ed arrestarlo. Sono sorpresa dal fatto di trovare un senzatetto nella via centrale della città, chissà come è arrivato fino a qui. Ha il borsone pieno di bottiglie di vetro, quelle che raccoglie dalla spazzatura per rivenderle e guadagnare qualche rublo. Lo invito ad alzarsi, gli offro il mio aiuto per spostarsi almeno di qualche metro. Lo sostengo per il braccio, è malconcio e non credo possa farcela. Gli dico di appoggiarsi a me, lui prova ad alzasi in piedi barcollante. Mi rendo conto che non possiamo allontanarci di molto.
“Hey bellezza dove pensi di portarlo? Credi che potrà andare lontano? Lascialo perdere che ci sono un sacco di ragazzi della tua età in giro…” Questa volta è l’amico del custode che riparte all’attacco con una risata volgare. E l’altro aggiunge sardonico: “ Ragazza stai facendo un errore a portarlo con te. Non sai quello che fai”.
Mi giro verso di loro, e mentre getto di scatto il mozzicone della sigaretta nel bidone accanto a loro, rispondo: “Non voglio parlare con chi non rispetta le altre persone, né tanto meno le leggi del proprio Paese. Arrivederci”.
“Buona fortuna con lui!”, ribattono ridendo e scuotendo la testa.
“Buona fortuna a voi con la Costituzione della Federazione Russa”, mi lascio sfuggire, e smetto definitivamente di ascoltare quello che continuano a dire.
La mia attenzione ora è quella di condurre Serghej fuori dalla loro visuale senza che cada per terra. Ci avviamo lentamente e mi rendo conto che non ce la fa a camminare. Gli faccio coraggio, gli sorrido. Riusciamo a malapena ad attraversare la strada e si appoggia all’edificio all’angolo, mani contro il muro e testa verso il basso, chiude gli occhi. Mi dice che sta male, penso stia per vomitare. Non posso fare niente per aiutarlo, non conosco un posto dove posso portarlo e non credo nemmeno voglia seguirmi. Gli dico che devo andare perché ci sono due bambine che mi aspettano. Gli ripeto dove incontriamo di solito la gente di strada, gli raccomando di non bere più così tanto, ben sapendo che si tratta di fiato sprecato. Serghej respira affannosamente, e non mi risponde. Lo saluto e mentalmente prego che possa sopravvivere all’inverno imminente.
Quando entro nella clinica saranno passati circa venti minuti. Aspetto un po’, Nastia ed Angelica escono e ci avviamo verso l’uscita. Ripassiamo davanti alla banca e vedo Serghej che dorme disteso sulla strada, all’angolo dove l’ho lasciato. Davanti alla banca non c’è più nessuno, e le panchine sono libere. Pulite, graziose e libere. Lo guardo per l’ultima volta e imprimo nella mia mente la sua foto ricordo, simile a molte altre che ho raccolto nell’album della memoria in questo anno di Russia.
Un senso di impotenza mi pervade. Penso a quanta strada c’è da fare in questo Paese, dove è importante conservare l’immagine intatta di una grande istituzione bancaria, oppure dove è importante che una donna non fumi per strada anche se poi a casa viene picchiata dal proprio compagno puntualmente ubriaco, ma dove i diritti umani non sono uguali per tutti.
E sono spesso infranti dalla stesse persone che dovrebbero darne garanzia.
“Non ci sono più i due cretini che fotografano l’uomo sulla panchina”, nota Nastia. La guardo e le sorrido: “Non c’è più nemmeno l’uomo sulla panchina”.
“Già”, ribatte lei. E proseguiamo verso casa.
Note:
1. Sono le due ragazzine che vivono con me in casa famiglia. Cfr “Storie di famiglia”
2. Eto, in russo, è un pronome neutro utilizzato per gli oggetti. Qui impiegato in senso spregiativo.
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