Caschi Bianchi Palestina / Israele
È del circo il fin la meraviglia… Vivere in un campo profughi in Palestina oggi
Un progetto artistico nato dalla collaborazione tra la prima Scuola di Circo Palestinese e Clowns Without Borders Francia, volto a portare le arti del circo e regalare un sorriso ai bambini di alcuni villaggi e campi profughi della West Bank, è l’occasione per approfondire la conoscenza dell’attuale situazione di vita all’interno di tre grandi campi profughi palestinesi.
Scritto da Federica Battistelli. Foto: Federica Battistelli e Lorenza Sebastiani, Caschi Bianchi in Israele/Palestina
Questo reportage fotografico è la testimonianza di un progetto artistico nato dalla collaborazione tra la prima Scuola di Circo Palestinese e Clown Without Borders Francia: dal 13 luglio al 4 agosto 2007 la Scuola di Circo Palestinese ha ospitato a Ramallah sette artisti francesi del gruppo Clown Senza Frontiere, collettivo di più di 450 artisti professionisti che viaggiano in tutto il mondo portando momenti di gioia e sorrisi alla popolazione di aree di crisi, soprattutto bambini traumatizzati, migliorandone la condizione psicologica.
I clown sono volontari specializzati in tutte le arti performative, che utilizzano lo humor come supporto psicologico per individui e comunità che soffrono in aree in conflitto.
Dalla prima esibizione in un campo profughi della Croazia il numero delle missioni dei clown nelle aree di crisi intorno al mondo è notevolmente aumentato e sono stati fondati gruppi di Clown Without Borders in Francia così come Belgio, Svezia, Canada e Stati Uniti.
Attraverso la sua azione, questa organizzazione mira a diffondere un messaggio di pace e speranza in tutto il mondo e a fornire agli artisti locali gli strumenti necessari per aiutare individui e comunità che soffrono a causa della guerra, dell’occupazione, dell’esclusione sociale e della povertà.
Dopo una settimana di training congiunto e tre giorni di libera e creativa improvvisazione, gli artisti hanno ideato uno spettacolo che è stato messo in scena nel corso di un tour itinerante nella West Bank.
La particolare situazione della Cisgiordania, costellata da oltre 500 tra checkpoint militari israeliani e blocchi stradali, rende ancora più ambiziosa e piena di valore l’idea di un tour itinerante. Un tour itinerante nella West Bank, una terra in cui il diritto alla libertà di movimento e alla libera circolazione dell’individuo – rigorosamente palestinese – viene violato su base quotidiana e così difficile a volte sembra solo l’idea di concepire uno spostamento fisico.
Non solo “Esistere è resistere” per il popolo palestinese – come cita un graffito sul muro al checkpoint di Gilo (Betlemme) – ma “Muoversi è resistere”. E il progetto di un tour itinerante in questa terra ne riassume il senso e il profondo significato, costituendo uno dei tanti micro-atti di resistenza creativa che si oppongono all’occupazione e al controllo israeliani.
I campi profughi Jalazone (Ramallah), Askar (Nablus) e Shu’fat (Gerusalemme Est) hanno costituito alcuni dei palcoscenici d’eccezione per lo show.
Il sorriso dipinto sul volto dei bambini e degli adulti che hanno assistito allo spettacolo, le labbra dischiuse di fronte alla sorpresa e alla meraviglia e le tinte vivaci dei clown – in forte contrasto col grigiore dello sfondo -, hanno donato inconsuete note di colore ai campi profughi della West Bank e alla popolazione che da oltre quarant’anni vi risiede.
È del circo il fin la meraviglia: un pretesto per ricreare attraverso lo stupore e il sorriso, nuovi spazi di libera espressione.
Nel 1948 la maggior parte della popolazione palestinese, il cui luogo di residenza era la Palestina, perse le proprie case e mezzi di sussistenza quando – come risultato del Conflitto arabo-isrealiano e con la creazione dello Stato di Israele – fu costretta a muoversi in altre zone della Palestina, più tardi conosciute con il nome di West Bank e Striscia di Gaza, o nei Paesi confinanti quali Libano, Siria, Giordania.
I profughi palestinesi vennero costretti ad abbandonare tutto e a sparpagliarsi in ben 59 campi all’interno di questi Paesi (8 Campi profughi a Gaza; 19 nella West Bank; 10 in Giordania; 12 ufficiali in Libano; 10 ufficiali in Siria). Il numero complessivo della popolazione palestinese rifugiata – che comprende anche i discendenti delle persone che divennero rifugiati nel 1948 – è cresciuto da 914.000 nel 1950 a più di 4,3 milioni nel 2007. La stragrande maggioranza della popolazione palestinese ospitata in tali Campi profughi è costituita da bambini e giovani al di sotto dei 15 anni.
AL JALAZONE REFUGEE CAMP, RAMALLAH
Il Campo profughi Jalazone, situato a 6 km a nord di Ramallah, fa parte dei 19 campi creati all’interno della West Bank dopo il 1948. Il suo nome è quello storico dell’area sulla quale sorge il campo profughi ed è di grande significato per la memoria collettiva palestinese: Jalazone significa “luogo in cui l’acqua sorge dalla terra”. Esso ospita la popolazione palestinese proveniente da circa 36 villaggi diversi ubicati all’interno di quelli che oggi sono i confini di Israele.
All’inizio il campo profughi era costituito da tende con una popolazione di circa 3.500 unità e, soltanto nel 1952, l’Agenzia di Assistenza delle Nazioni Unite per i Profughi Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) fece costruire una stanza per ogni famiglia ospitata dal campo, senza cucina e bagno. Vi erano 15 bagni comuni distribuiti all’interno del campo profughi e una fonte di acqua comune mentre l’elettricità fu portata soltanto all’inizio degli anni ’70. Dunque le condizioni di vita e di salute della popolazione di Jalazone furono molto critiche durante gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Gradualmente gli abitanti del campo cominciarono ad aggiungere alla stanza una cucina, un bagno e una o più camere adibite a usi diversi. Poichè l’area sulla quale è stato costruito Jalazone è limitata – apparteneva originariamente al villaggio di Jiffna che ha dato in locazione la terra su cui sorge il campo all’UNRWA per 99 anni – ogni espansione in senso orizzontale è praticamente impossibile. Il campo profughi ha iniziato così, nel corso degli anni ‘70, ad espandersi verticalmente poichè ogni nuova famiglia necessitava di una casa e non di una sola stanza, come pianificato quando il campo fu creato.
Con la naturale e graduale crescita della popolazione ospitata dal campo il problema dell’abitazione e della vivibilità al suo interno quanto a condizioni di vita e salute si è fatto sempre più critico.
Oggi, secondo i dati forniti dall’organizzazione non governativa “Palestinian Child Club”- creata nel 2002 per offrire supporto psicologico, attività artistico-ricreative e servizi educativi alla fascia più giovane della popolazione del campo – Al Jalazone ospita circa 13.000 abitanti (i dati ufficiali riportano una popolazione di circa 10.000 unità) su un’area di 225 dunums (1 dunum = 1000 mq), dei quali la metà costituita da bambini e giovani al di sotto dei 16 anni.
Nel campo sono allocate circa 2500 famiglie, delle quali solamente 200 sono aiutate direttamente dall’UNRWA in quanto al di sotto della soglia di povertà.
Uno dei più grandi problemi che il campo profughi Jalazone oggi affronta è sicuramente quello della disoccupazione: infatti dopo lo scoppio della Seconda Intifada molti dei rifugiati ivi presenti che lavoravano all’interno di Israele e che guadagnavano un salario medio di 1000-1.500 shekel al mese, persero il proprio lavoro con gravi conseguenze per la propria sussistenza e quella della propria famiglia.
ASKAR REFUGEE CAMP, NABLUS
Situato alla periferia di Nablus nella West Bank, il campo profughi di Askar fu creato nel 1950 su 209 dunums di terra e conseguentemente espanso, negli anni ‘60, su un’area di 90 dunums di terra, che i residenti del campo sono soliti identificare con il nome di “Nuovo Askar”.
La popolazione registrata all’interno del campo è di circa 14.629 unità: il problema maggiore è il sovraffollamento, accompagnato da mancanza di adeguate infrastrutture quali strade e sistema fognario. Secondo l’UNRWA, razioni giornaliere di cibo sarebbero distribuite ad un numero approssimativo di 2086 famiglie.
Durante la seconda Intifada e soprattutto nel 2002, in occasione delle numerose e violente incursioni delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) i campi profughi intorno alla città di Nablus, soprattutto Askar, furono tra quelli che opposero maggior resistenza all’invasione israeliana e fornirono i militanti della resistenza armata.
Le incursioni delle Forze di Sicurezza Israeliane sono ancora molto frequenti nel campo profughi di Askar e sono condotte con il pretesto di interrrogare o arrestare sospetti militanti che le autorità israeliane considerano essere affiliati ad organizzazioni terroristiche palestinesi.
L’UNRWA gestisce diverse scuole e centri di cura all’interno del campo. Sono presenti inoltre diversi altri centri creati direttamente dalla comunità tra cui il Centro di pace e Sviluppo che si trova nel “Nuovo Askar”.
SHU’FAT REFUGEE CAMP, EAST JERUSALEM
Il campo profughi di Shu’fat si trova ad est dell’omonimo villaggio arabo, e circa a 3 km a nord-est di Gerusalemme. Esso ospita una popolazione di circa 10.717 unità (1), ed è l’unico campo amministrato dall’UNRWA situato dentro i confini della Municipalità di Gerusalemme (quindi sotto la piena sovranità israeliana).
Esso fu creato nel 1965/1966, più una decade dopo la creazione di tutti i campi profughi ufficiali della West Bank, su un’area di 203 dunums, grazie allo sforzo congiunto del Governo Giordano e dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA).
I profughi del campo di Shu’fat provengono principalmente da 56 villaggi i cui abitanti furono espulsi durante la guerra del 1948. La maggior parte di essi, dopo la prima espulsione, viveva nel Campo profughi M’ascar nel quartiere Marocchino (i Palestinesi si riferiscono ad esso come Al-Harat Ash-Sharaf, mentre la popolazione ebraica si riferisce ad esso come Quartiere Ebraico) all’interno della Città Vecchia di Gerusalemme, fino al 1967. Con la conquista e l’occupazione di Gerusalemme Est durante la guerra dei Sei Giorni, l’intero Quartiere Marcocchino ospitante circa 650 arabi fu demolito e molti dei suoi abitanti furono espulsi di nuovo dalle autorità israeliane e trasferiti nel campo profughi di Shu’fat.
Quando fu creato 3000 profughi palestinesi vivevano nel campo, che conteneva circa 500 unità abitative(2); soltanto negli anni ‘70 furono costruiti gli impianti di scarico delle acque nere e furono portate l’acqua corrente e l’elettricità nel campo.
Nonostante molti dei Palestinesi residenti nel campo profughi di Shu’fat siano in possesso della Gerusalemme blu ID (documento di residenza permanente), e dunque abbiano pieno diritto ai servizi forniti dalla Municipalità di Gerusalemme, questa non si fa alcun carico dell’erogazione dei servizi essenziali e della gestione degli impianti volti ad assicurare condizioni di vita dignitose per la sua popolazione.
Nel corso di quarant’anni la popolazione del campo di Shu’fat è più che triplicata, e almeno 2.058 famiglie vivono all’interno del campo.
Tuttavia si stima oggi che la popolazione totale all’interno del campo sia di circa 20.000 persone; al numero di coloro che godono dello status di “rifugiati” si aggiunge infatti quello dei palestinesi-non rifugiati che vi si sono insediati negli ultimi anni emigrando da Gerusalemme.
L’impossibilità di ottenere concessioni edilizie per costruire nuove case – specialmente all’interno della Città Vecchia – unita all’aumento spropositato del costo di acquisto o affitto delle abitazioni in altri quartieri di Gerusalemme Est, ha portato numerosi palestinesi gerusalemiti a trasferirsi nell’area dove sorge il campo profughi di Shu’fat. Qui, infatti, gli affitti sono più bassi e, soprattutto e non trascurabile, tale scelta consente loro di non vedersi revocata la Gerusalemme blu ID, che garantisce loro uno status privilegiato rispetto ai Palestinesi della West Bank con la ID verde. Questo ha portato all’aggravamento del maggior problema presente nel campo di Shu’fat, e cioè quello del sovraffollamento della popolazione.
Per di più le norme tecniche e di sicurezza dell’UNRWA che sovraintendono alla costruzione di nuovi edifici, sono completamente ignorate e sempre più rifugiati stanno edificando tre o quattro piani su edifici le cui fondamenta sono state originariamente pensate per supportarne uno o al massimo due.
Come negli altri casi, oggi l’UNRWA amministra ed è responsabile per le questioni del campo profughi di Shu’fat, nonostante che solo il 50% della sua popolazione sia costitituita da rifugiati. Teoricamente tutti i servizi sono forniti ai residenti attraverso l’UNRWA, ad eccezione di alcuni servizi di cura – che sono forniti da Israele attraverso la presenza di centri medici all’interno del campo – e dell’erogazione della corrente elettrica. A parte questo, Israele e la Municipalità di Gerusalemme non forniscono alcun tipo di servizi essenziali ai residenti del campo di Shu’fat (manutenzione delle strade, illuminazione delle vie pubbliche, impianti di scarico, erogazione dell’acqua, raccolta dei rifiuti, scuole, servizio postale). In generale, la presenza israeliana nel campo profughi di Shu’fat è limitata alla presenza di due checkpoint che controllano le vie di uscita e di entrata al campo, alle incursioni della Polizia di Frontiera e alla riscossione delle tasse. Il fatto che Israele riscuota tasse dalla popolazione palestinese rifugiata che risiede all’interno del campo rivela la specificità della situazione del Campo di Shu’fat: i profughi che vivono all’interno dei campi amministrati dalle Nazioni Unite non sono di regola tenuti a pagare le tasse al Paese ospitante(3).
Vi è un altro fattore che rende singolare e drammatica la situazione della popolazione palestinese del Campo profughi di Shu’fat, diventato vero e proprio “ghetto” palestinese impoverito nel cuore della città di Gerusalemme. Il Muro di Separazione – che racchiude e contiene le colonie israeliane intorno a Gerusalemme ricomprendendole all’interno dei confini della Municipalità – disconnette e separa oggi il campo profughi dalla città stessa di Shu’fat e da Gerusalemme, da sempre centro religioso, culturale e sociale per gli abitanti del campo.
Sebbene la situazione economica dei residenti del campo profughi di Shu’fat sia stata sempre migliore di quella di altri rifugiati palestinesi che vivono in altri campi all’interno della West Bank, la costruzione del muro ha inciso profondamente e in maniera negativa sui residenti che lavorano a Gerusalemme e che hanno scambi commerciali con le comunità palestinesi locate all’interno del muro. Il Muro di Separazione costruito da Israele, in questo tratto, taglia fuori completamente la popolazione del Campo Profughi di Shu’fat, sebbene esso si trovi entro i confini amministrativi della città di Gerusalemme. Ciò è probabilmente dovuto a ragioni politiche piuttosto che a presunti criteri di sicurezza: l’alto tasso di densità demografica di questa periferia della Città Santa – popolata in prevalenza da una popolazione araba – risulta contrario al progetto sionista israeliano di una Gerusalemme a maggioranza etnica ebraica.
Un membro del comitato locale del campo profughi di Shu’fat ha descritto il Muro come la terza catastrofe – Nakba – dopo quelle occorse rispettivamente nel 1948 e nel 1967. Gli abitanti del campo sono già stati espulsi due volte nell’arco di 59 anni e ora la situazione esistente a causa del Muro potrebbe provocare una terza espulsione.
La Barriera di Separazione inoltre preclude o rende difficile l’accesso ai servizi essenziali, quali l’istruzione, le cure mediche, il lavoro etc., pregiudicando le relazioni familiari e il benessere psicologico della comunità di questo campo profughi, con ricadute negative soprattutto per la fascia più giovane.
Si conta che un terzo circa della popolazione totale sia rappresentanta da bambini e giovani.
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