A 38 chilometri a nord di Astrakhan, sulla strada verso Volgograd, si trova l’indicazione per Raznochinovka. Si svolta a sinistra ed iniziano 12 km di sterrato, attraverso piccoli affluenti del Volga, distese d’erba verde alternate a boschetti, vacche al pascolo. È una zona ricca d’acqua, e lo si nota anche se a tratti il caldo torrido brucia la vegetazione circostante. Percorrendo la strada sterrata, si incontrano poche auto provenienti dai paesini dislocati in mezzo al nulla.
Il tratto che precede l’arrivo all’istituto è caratterizzato da un agglomerato di scure baracche di legno. Dai tetti sgangherati di ognuna spunta una parabola candida, a ricordare che una qualche forma di globalizzazione è giunta fino a qui. Entrando in quello che si presume il centro di Rasnochinovka, ci si accorge subito della povertà del luogo. Le casette sono vecchie, quasi tutte di legno; il paesaggio è spoglio e qua e là s’intravedono rovine arrugginite abbandonate in mezzo ai campi.La domanda sorge spontanea: perché questo agglomerato fuori città si distingue dagli altri innumerevoli ed indefiniti sparsi per il vasto territorio? La risposta si trova presto: un grande complesso d’edifici, circondato da un’alta recinzione ferrata, i cui cancelli principali portano in alto la scritta “Detskij dom”, casa per l’infanzia. È un istituto per minori. I cancelli e la scritta sono colorati, e salta subito all’occhio il contrasto con il grigiore dei muri. Questo centro accoglie circa 240 bambini, la maggior parte disabili mentali o fisici, anche se in alcuni di loro non si coglie a prima vista alcuna forma di “diversità”. Tutti sono accomunati dal rifiuto delle loro famiglie, e sono destinati per tutta la vita a vivere in centri statali come questo.
Sono i figli di nessuno, nessuno li viene a trovare, nessuno telefona per sapere come stanno, nessuno li ama. Nessuno si cura dei loro diritti di bambini.Oggi infrangiamo questo quotidiano isolamento facendo loro visita. Portiamo con noi delle caramelle, dei biscotti e qualche giocattolo. Parcheggiamo le macchine e ci dirigiamo verso il corpus che accoglie i bambini più piccoli. Subito notiamo che siamo accolti con uno stupore mal celato, perché non abbiamo telefonato per avvertire del nostro arrivo. Apprendiamo che la direttrice, Valentina, non è presente perché ammalata.
Passiamo accanto al primo recinto, dove stanno chiusi alcuni ragazzini, avranno all’incirca dai 12 ai 16 anni. Ci spiegano che li tengono rinchiusi perché sono mentalmente instabili, sono violenti e
Sasha.
Cosa fai qui da sola?
Aspetto di andare a mangiare.
Quanti anni hai?
Non me lo ricordo.
Due occhioni azzurri su un visetto che avrà forse 7 anni, dolcissimo e sorridente. Un sorriso triste, enigmatico, che non so dimenticare.
incontrollabili. Io li guardo e li saluto con la mano, alcuni contraccambiano con qualche parola e qualche sorriso, come risvegliati da questo strano gruppetto di visitatori, mentre altri continuano a fare quello che stavano facendo fino a quel momento, cioè nulla, seduti su delle panchine sotto gli occhi di due sorveglianti. Faccio qualche foto e mi accorgo che al recinto si accede solo da una porta che conduce allo stabile dove presumibilmente ci saranno i letti e la mensa per questi ragazzini. Mi accorgo che all’estremo opposto ci sono dei bambini che giocano per terra, senza abiti. Perché nudi? Perché non controllano lo stimolo ai bisogni fisici, mi spiega quella che sembra la vice direttrice, la quale mi sta appresso ad ogni passo che faccio dopo essersi accorta della mia macchinetta fotografica. La conclusione dunque è che se la fanno addosso e così è comodo non doverli cambiare. A quel punto mi chiedo davvero se ci siano i bagni in questa parte dell’istituto. Ma quello che mi colpisce di più è il momento della distribuzione del pasto: tutti entrano e per ultimi restano quelli che strisciano nudi per terra. Mi appresto a fotografare, ma le donne che li sorvegliano si mettono leste dietro ai ragazzi, per coprirli dal mio obiettivo.Le cose non vanno diversamente quando chiediamo di entrare nel padiglione dove si trovano i bambini più piccoli: purtroppo siamo arrivati nel momento meno opportuno e non è possibile entrare perché si stanno preparando al pranzo. Chiedo allora alla vice direttrice se dopo pranzo sia possibile, mi risponde negativamente perché ci sarà l’ora del riposo. “Sareste dovuti venire la mattina presto per poterli vedere”, mi dice, e io sono sicura che in quel caso avrebbe trovato un’altra scusa per non farci entrare. Ci permettono solo di portare nel corridoio il sacco con i giochi, e tutte le porte delle stanze d’improvviso vengono chiuse. Si sente qualche pianto da oltre le porte, pianto di bambini molto piccoli. Mi guardo attorno sperando di poter almeno dare uno sguardo ad una di quelle stanze ed alla fine ci riesco. Come la vice mi sta appresso, anch’io decido di seguire la sua tattica, così quando apre la porta di una stanza per confabulare con qualcuno, sono dietro di lei e riesco a fare un passo oltre la soglia. Basta qualche secondo perché giunga alle narici un tanfo d’escrementi, e mi copro naso e bocca mentre osservo quello che mi trovo davanti: bambini seduti su un tappeto in centro alla stanza, uno con due monconi al posto delle gambe. Giochi sparsi nel caldo soffocante. Qualche secondo e qualcuno mi spinge decisamente fuori, richiudendomi la porta in faccia. Comincio a capire perché non sia possibile visitare questa sezione dell’istituto. Chiedo alla mia “guardia del corpo” che età hanno i bambini in questo corpus, perché ne ho intravisto qualcuno davvero piccolo, e lei candida mi risponde che qui non prendono bambini sotto ai 4 anni. Bugiarda.
Usciamo nuovamente nel giardino, dove è comparso qualche bambino di quelli più grandi a giocare sull’altalena o seduto a chiacchierare con qualcuno del nostro gruppo. Sfila anche un gruppo sui 10-12 anni, stanno andando verso la mensa. Mi avvicino e mi circondano, tempestandomi di domande ed accarezzandomi: come mi chiamo, mamma mi vuoi bene, ti piace la mia maglietta, mi puoi abbracciare… Solo ora che li ho intorno realizzo che hanno tutti i capelli rasati, e sono magrissimi, visi scavati e occhiaie viola sotto agli occhi. E soprattutto, sono diversissimi: qualcuno down, qualcuno con ritardo mentale, qualcuno zoppica, qualcuno autistico. Qualcuno perfettamente normale, non fosse per gli occhi tristi e il pallore del viso. Chiediamo di poterli seguire per poter dare loro i dolcetti che abbiamo portato, e ci viene accordato, naturalmente con la vice a farci compagnia.
Attraversiamo il giardino per giungere al lato sinistro dell’istituto, ed entriamo nella mensa. I bambini naturalmente non stanno più nella pelle e non riescono a stare seduti in modo composto per avere le caramelle. Tutti vogliono essere fotografati. La mensa emana un odore stomachevole di casha, il semolino russo considerato cibo dei poveri. L’intonaco cade a pezzi dai muri, tutto è abbastanza sporco. Mentre Lea comincia a distribuire i biscotti, io mi appresto a fare il giro con le caramelle; riesco anche a fare qualche foto perché la mia “inseguitrice” è distratta a controllare che i ragazzini le facciano fare bella figura. Mi sembra che non vedano qualcosa di dolce da anni, e lei sembra leggermi nel pensiero e grida cinica rivolta a loro: “State a posto! I biscotti li mangiate ogni giorno, sembra che non li vediate da cento anni!”. Mentre ci avvicinavamo alla mensa, ci aveva illustrato il menu tipico, soffermandosi sul fatto che ogni giorno i bambini hanno la loro dose di vitamine e di biscotti e che il cibo non manca. Osservo questi piccoli seduti ai tavoli bianchi, i loro sguardi affamati, e ho l’impressione che sia vero il contrario. Prima di uscire fotografo ancora e quasi mi aspetto un invito a smetterla, tanto è cupo lo sguardo di tutte le donne russe che mi circondano.
Proseguiamo nel nostro giro ed ora entriamo nell’area dove vivono solo ragazze adolescenti, avranno sui 14-16 anni, qualcuna anche di più. Qui l’ambiente è più ordinato, le porte delle stanze restano tutte aperte e le ragazze ci accolgono sorridenti. Anche qui le patologie sono mescolate, e quando vedo un paio di loro intente a mettersi lo smalto rosso sulle unghie sorrido, colpita da quel gesto di vanità femminile su quelle piccole donne che vogliono farsi belle, come tutte le loro coetanee che vivono fuori dal recinto dell’istituto. Quasi mi commuovo perché penso con tenerezza alla loro fragile umanità, e mi colpisce il contrasto tra il loro voler sognare e l’ambiente che le circonda. Regaliamo loro caramelle, facciamo qualche foto e scambiamo due chiacchiere, apprestandoci nuovamente verso il giardino per la distribuzione di quello che ci rimane.
Scendendo le scale mi ostino a chiedere informazioni a questa donna di ghiaccio che è con noi fin da quando siamo arrivate. Questa volta voglio sapere quante persone lavorano qui. Lei mi dice che ce ne sono circa 150, tra sorveglianti, personale medico, cuochi, addetti alle pulizie e segretari. Mi sembra un numero esagerato, anche perché girando per l’istituto avrò incontrato neanche una trentina di persone. Sono tutte persone che vestono in maniera dimessa, la maggior parte sono donne. E di sicuro non bastano per tenere d’occhio tutti i bambini. Ecco perché questo istituto è famoso per essere quello in cui i bambini subiscono violenze. Qui vivono bambini e ragazzi dai 2 ai 18 anni; al compimento della maggiore età vengono trasferiti in un altro istituto. Sono promiscui, sono solo suddivisi per fasce d’età, senza tener minimamente conto del tipo di bisogni e dello stato di salute, fisica e mentale. Non è difficile immaginare che i ragazzi più grandi la notte usino violenza sui bambini più piccoli: di giorno la subiscono dalla parte più forte, la sera la restituiscono a quella più debole. Non ho nessuna certezza per provare concretamente queste impressioni, ma ho la certezza di quello che ho visto: più di una volta ho alzato la mano per accarezzare le testoline che mi circondavano, e ogni volta si scansavano come per evitare un colpo, uno schiaffo. Qualcuno potrà credere che lavori d’immaginazione, ma sono convinta che su certe cose non ci si può sbagliare. So anche che tutte le persone che lavorano nell’istituto ricevono una paga molto bassa, e che spesso hanno loro stessi una famiglia e dei figli da accudire con i mezzi ristretti che si ritrovano, per cui nella maggior parte dei casi non hanno né stimoli né preparazione adeguati per garantire l’incolumità dei bambini presenti.
Giocavo nell’erba.
Jura, vai…Ti stanno chiamando.
Si adesso vado. E tu vai via?
[…]
[…]
Sì Jura, ma ritorno presto.
Il vociare dei bambini in giardino riporta la mia attenzione su di loro. Avranno 6, al massimo 8 anni, e ci vengono descritti come i più piccoli accolti dell’istituto. Dovremmo crederci, come se non fossimo mai entrati nel primo padiglione. Mi si avvicinano incuriositi, mi fanno tutti le stesse domande. All’improvviso una vocina mi chiede: “Mama, ljubish menja?”,“Mamma, mi vuoi bene?” Resto senza parole. Lui è piccolino, smunto. Iniziano tutti a chiamarmi mamma, a farmi la stessa domanda, ad avvinghiarsi a me, chi appoggia la testa sul mio seno, chi più piccolino mi cinge i fianchi. La voce mi trema mentre rispondo: “Konechno ja ljublju vsekh vas, malenkie”, “Certo che vi voglio bene, piccolini. A tutti”, mentre sento una bimbetta che mi chiede: “Mama, vozmi menja domoj s soboj”, “Mamma, portami a casa con te”. La guardo e mi sorride, ha il vestitino sporco e stracciato. Mi sembra bellissima. Solo che non ce la faccio, il magone che ho sentito crescere dentro di me da quando siamo arrivati mi strozza le lacrime in gola. Approfitto del fatto che li stanno radunando tutti sotto una tettoia per distribuire le caramelle rimanenti e pian piano mi stacco e mi allontano dal gruppo. In testa continua a pulsarmi l’ultima domanda, e mi fa male. Guardo da lontano quei bimbi cui viene ordinato in modo poco gentile di sedersi ed aspettare fermi, i giochi sparsi lì attorno sembrano surreali, l’aria è immobile, e ho l’impressione di essere in un campo di concentramento piuttosto che in un istituto per minori.
La nostra visita a Raznochinovka termina col saluto a questi ultimi bambini che ritornano nel loro padiglione. Li vedo allontanarsi e alcuni voltarsi verso di noi, come se non volessero farci andare via, e tentassero di imprimersi nella memoria i nostri volti. Lentamente torniamo alle macchine e ce ne andiamo. Fino a qualche anno fa si riusciva più spesso a fare visita a questi bambini, ora invece il tempo a disposizione non lo permette. Si riusciva addirittura ad organizzare dei piccoli spettacoli teatrali per loro, per far loro vivere un momento di festa.
Mi chiedo quando sarà possibile la prossima volta ritornare qui. Quello che possiamo portare noi non è molto, però almeno riusciamo ancora a farli sorridere, questi bambini. Il problema sta nel perché esiste un centro di questo tipo in un posto così isolato, che d’inverno con la neve ed il fango diventa praticamente irraggiungibile, perché questi bambini sono tenuti nascosti? Una parziale risposta si trova nel contesto storico della Russia. Ai tempi del comunismo, soprattutto negli anni di Stalin, la propaganda mirava a dare un’immagine perfetta dell’uomo sovietico, senza difetti né malattie, per cui tutti quelli che erano ritenuti diversi ed ammalati venivano isolati, non esistevano per lo stato. Tutti dovevano credere che il socialismo reale desse solo buoni frutti, che il concetto di famiglia fosse inattaccabile, che non esistessero abbandoni e che la diversità fosse una deviazione della persona da nascondere ed eliminare(1). Questi concetti si riflettevano in tutta l’organizzazione della società, per cui non erano previste forme di assistenzialismo per chi ne necessitava, e venivano creati centri ed istituti dove poter isolare i residui della società, inutili al corretto sviluppo del ‘sistema’.
Ma adesso? I tempi ideologicamente sono cambiati e la Russia fa parte del G8, il gruppo dei Paesi più potenti al mondo. Ma potenti sotto che punto di vista? Economico, politico, militare. E sociale? La mentalità della gente non cambia tanto in fretta quanto vorrebbero i politici. La gente qui fa ancora fatica a vedere quello che ancora c’è di sbagliato, o forse non vuole vedere. Non è abituata a vedere. C’è bisogno di un processo rieducativo, una democratizzazione dal basso, che parta dalla gente comune prima di tutto per consapevolizzarla dei propri bisogni, e poi per aiutarla ad affrontarli senza doverli nascondere.
E forse allora i bambini di Raznochinovka, come tutte le migliaia sparsi per il resto della Federazione Russa, smetteranno di essere i figli di nessuno.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!