Yusra sembra più piccola di quello che è. Quando la conosco non noto subito il piccolo anello d’oro che porta al dito anulare della mano sinistra. Ed anche quando lo noto non ci faccio molto caso: sembra così giovane che non le darei più di diciotto anni. La prima cosa che mi rimane impressa di lei sono gli occhi: occhi grandissini per il viso minuto, occhi profondi che non si possono non notare…come i miei. Quando ero piccola tutti mi prendevano in giro per i miei occhi, così quando la vedo penso che deve essere stato così anche per lei, e la prendo subito in simpatia.
Yusra è la più grande di tre sorelle ed un fratello, cresciuta nel villaggio di Dura, nel distretto di Hebron. Sua madre è molto malata, ha subito danni allo stomaco durante le gravidanze che le causano spesso emorragie interne. È costretta a letto la maggior parte del tempo e non può quindi occuparsi dei figli. Così Yusra ad undici anni è già una piccola donna: mentre il babbo lavora tutto il giorno, lei si occupa delle sorelline e del fratello, della casa, della cucina, delle pulizie.
A sedici anni Yusra sta facendo le scuole superiori, è molto brava in inglese e sogna solo una cosa: andare via, scappare dalla sua casa per sempre. La mamma sta meglio adesso, non ha più emorragie interne, ma hanno dovuto asportarle l’utero. Nella società tradizionale palestinese, in un piccolo villaggio come Dura, chiuso e fortemente legato alle tradizioni maschiliste che vogliono la donna come procreatrice di figli, una donna senza utero è una moglie inutile. Così la madre del marito, che ha sempre un grosso potere all’interno della famiglia, insiste con il padre di Yusra perché si sposi una seconda volta prendendo una donna che possa dargli altri figli. Questo genera litigi e scontri all’interno della coppia, con il risultato che la casa sembra sempre un campo di battaglia. Yusra con i suoi sedici anni è già stanca, sogna una vita tutta sua, sogna una casa dove sia lei a dettare le regole, sogna una famiglia vera.
Così quando conosce Mohammed, non la sfiora neanche l’idea di non considerare la sua proposta di matrimonio: lui è sei anni più grande di lei, religioso praticante come lei, grandi promesse sulla bocca, spalle larghe per lavorare. Yusra ha solo sedici anni, ma questo è quello che sta aspettando: la possibilità di scappare via, di crearsi una famiglia tutta sua, il caldo focolare dove crescere i suoi bambini, un uomo che la ami al suo fianco: le sembra quasi un sogno quando i suoi genitori le comunicano che lui l’ha chiesta in sposa ed accetta subito.
A diciannove anni, Yusra decide di fare l’università nonostante nel suo grembo il piccolo Jihad stia lentamente crescendo, nonostante il marito non capisca questa sua voglia di continuare a studiare quando deve già occuparsi della casa e presto di un bambino. Ma Yusra non vuole mollare, lei la vuole la sua laurea in inglese, lei sa che ce la può fare. Nonostante Mohammed si sia rivelato molto meno affettuoso e premuroso di quanto pensasse, nonostante non abbia neanche il tempo di domandarsi se davvero è felice, nonostante dentro di lei qualcosa stia morendo, Yusra non molla. E non molla neanche quando i commenti del marito diventano insulti veri e propri, quando agli insulti cominciano ad aggiungersi le botte, mentre lui passa le sue giornate bighellonando per il villaggio e lei lavora, studia, cresce il loro bambino, bada alla casa.Yusra compie 21 anni: la sua laurea con ottimi voti le permette di trovare subito lavoro come insegnante alla scuola elementare del villaggio, il piccolo Jihad cresce e adesso c’è una sorellina in arrivo: Yusra crede che questo cambierà un po’ le cose. Adesso ha più tempo per dedicarsi alla casa, Mohammed sarà contento di lei, lei sarà come lui vuole. Perché Yusra sa che è stata colpa sua se le cose non sono andate tanto bene negli ultimi anni: lei era occupata a studiare e non è stata capace di essere una buona madre ed una buona moglie, come il marito le ricorda tutti i giorni. A dire la verità, Mohammed sembra orgoglioso più dello stipendio che di lei: se lo intasca tutti i mesi costringendo Yusra a chiedergli ogni giorno i soldi, anche per andare a fare la spesa. La nascita della piccola Kauthar non migliora le cose: gli insulti continuano e così le botte, anche davanti ai bambini. Continuano gli abusi, continua l’inferno. Yusra però non molla, glielo hanno insegnato fin da quando è piccola, che se un matrimonio non va è colpa della donna, che il suo compito è soddisfare il marito, che la sua funzione si esaurisce in quella di buona moglie e madre. Yusra sa che la colpa è sua, quindi è lei che deve risolvere i problemi, è lei la causa e la soluzione.
Il 28 maggio 2007 Yusra ha venticinque anni e non riesce a dormire. Le lacrime le rigano il volto, il suo corpo trema come una foglia, ma i suoi singhiozzi sono silenziosi: giace distrutta nel letto, l’anima lacerata come il povero corpo. Ma questa volta non sono le botte a farla piangere, il dolore del corpo passa, quello dell’anima no. Yusra lo sapeva, lo sapeva da tempo che Mohammed si vedeva con qualcun’altra. Se lo sentiva, lo aveva capito dalle telefonate mute che ogni tanto riceveva in casa, dalle assenza sospette, dai commenti che giravano in paese: la gente mormora, specialmente in un villagio piccolino come Dura. Ma non si sarebbe mai aspettata quello che il marito solo poche ore prima le aveva comunicato, questo era troppo anche per lui, questa era davvero l’ultima umiliazione. In Palestina avere una seconda moglie è molto raro, è legale ed accettato, ma molto, molto raro: si tratta in genere di casi in cui la prima moglie è molto vecchia o impossibilitata ad avere figli, quindi il marito si risposa, e sempre con il consenso della prima moglie. Mohammed non lo chiede neanche il consenso di Yusra, le comunica solo la sua decisione: si risposerà con una donna più giovane, che saprà essere una brava moglie come lei non è, e badare ai suoi figli come lei non è capace di fare. E lei, come da tradizione, dovrà organizzare la festa di fidanzamento e il matrimonio.
Quelle parole risuonano nelle orecchie di Yusra per ore, non riesce a farle andare via, e le botte che sono arrivate dopo le sue rimostranze sono state quasi un sollievo, un diversivo dal dolore che provava dentro, un dolore per coprirne un altro, lividi viola per coprire il buio della sua anima.
Yusra non sa esattamente cosa sta facendo quando si alza dal letto e va nella stanza dei suoi bambini, non sa esattamente perché dà loro un bacio sulla fronte senza svegliarli e poi esce dalla loro stanza. Yusra non sa che cosa ha messo nella borsa quando le sue mani tremanti prendono le chiavi di casa e aprono la porta, sa solo che qualcosa la spinge ad andare via. E segue il suo istinto, come ha sempre fatto nella sua vita: paura e dolore sono stati la spinta di ogni sua azione da quando ha sedici hanni. Trascorre la notte in taxi andando verso il confine con la Giordania, dove passa dall’altra parte e si trova alle dieci di mattina davanti alla porta di casa dei suoi genitori ad Amman. Quando sua madre apre la porta, Yusra non parla, non dice niente. Le lacrime e i singhiozzi parlano per lei: e d’improvviso non ha più 25 anni, non è più una madre ed una moglie. D’improvviso una bimba di dieci anni piange e singhiozza tra le braccia della mamma, d’improvviso non c’è più niente da dire, non ci sono problemi da cui scappare, d’improvviso c’è solo il calore di un abbraccio. E non importa più cosa è stato, non importa cosa sarà, d’improvviso l’unica cosa che conta è quel profumo di casa, le braccia del babbo che la sollevano e la portano nella sua stanzetta, il sonno che si impossessa del suo corpo, mentre tra le lacrime scorge solo quei due volti rigati dalle rughe che vegliano su di lei.Quando ho conosciuto Yusra erano passati dieci giorni da quella notte. Mi ha raccontato la sua storia la prima notte in cui abbiamo condiviso una stanza d’albergo ad Amman per partecipare ad un corso di mediazione interreligiosa. Io venivo da Beit Sahour, a pochi chilometri da Dura e conosco bene il suo villaggio. Così abbiamo cominciato a parlare. Yusra adesso ha un lungo e tortuoso cammino davanti a sé: per poter divorziare dovrà pagare al marito una cifra come 6000 euro (il suo stipendio è di circa 300 dollari al mese) e dovrà ricorrere alla corte per ottenerlo, con il rischio di essere condannata per aver abbandonato i figli. Non solo, Yusra non potrà mai più risposarsi perché nessuno accetterebbe di sposare una donna divorziata a Dura, e tutto il suo villaggio la accusa di aver fatto fallire il matrimonio, e di essere stata una cattiva madre ed una cattiva moglie. Yusra però dovrà tornare a Dura a settembre perché il suo lavoro è lì: ed ha paura, paura che nonostante il divorzio il marito la aspetti per fargliela pagare, per punirla della vergogna che ha gettato su di lui scappando. Ci vorranno almeno tre o quattro mesi per ottenere il divorzio, ma Yusra è fortunata perché la sua famiglia ha deciso di appoggiarla, di non costringerla a tornare dal marito. In tutto questo periodo di tempo Yusra non può vedere i bambini che ha dovuto lasciare con il marito: la corte probabilmente glieli affiderà, ma solo fino ai nove anni, poi se il marito li reclamerà per sé, sarà suo diritto averli. Yusra ha un lungo cammino davanti a sé, ma i primi passi li ha fatti. Per ora l’unica cosa fondamentale è ricucire le ferite, è abbandonare il senso di colpa che la perseguita, è cercare di capire che dedicarsi agli altri non vuol dire abbandonare se stessi. Yusra ha un futuro, questa è l’unica cosa che conta.
Come lei decine e decine di donne in Palestina vivono situazioni di sofferenza e soprusi, che non sono frutto della religione, infatti questo accade nelle famiglie musulmane come in quelle cattoliche, e in quelle cristano ortodosse, ma di una cultura tradizionale e chiusa, che ripropone una situazione dell’Italia di cinquant’anni fa. Qui, nei piccoli villaggi lontani dalle grandi città, la tradizione è identità, le regole di convivenza sono le stesse da decine di anni e nessuno osa metterle in discussione. Qui il delitto d’onore non è acqua passata, è una realtà ancora viva ed accettata, l’organizzazione patriarcale della famiglia è la base dell’organizzazione sociale, così come i matrimoni organizzati sono la norma. Pochissimi criticano questa situazione perché ogni attacco è una dichiarazione di complotto con Israele, ogni critica è taciuta in nome dell’occupazione. Neanche Yusra e la sua famiglia criticano questo sistema, per loro Yusra ha solo avuto sfortuna. Io dal mio piccolo cerco di non giudicare, ma quando la guardo mentre mi racconta di come abbia fallito nel suo compito di moglie e di madre, non posso fare a meno di pensare che tutto questo non è solo ingiusto, non è solo assurdo. Tutto questo è la perpetuazione della condizione delle donne che sono state e continuano ad essere ancora oggi una delle categorie più sfruttate e oppresse all’interno di tutte le società, si definiscano queste occidentali o orientali o africane. La donna, creatrice di vita e motore della famiglia, viene spesso all’interno della stessa oppressa e schiacciata, fino al suo totale annullamento come persona, in funzione di una totale subordinazione alle figure maschili.
Mentre saluto Yusra per tornare a casa, spero che possa riabbracciare i suoi bambini, spero che tutto questo cambi e che la sua storia un giorno sia solo…storia!
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!