Caschi Bianchi Venezuela

Il ranchito

La piccola baracca appolaiata su una ripida collina, nasconde una storia di profonda sofferenza. Ombretta racconta il suo incontro con una povertà radicale che mina ogni giorno gli affetti e la salute, in particolare dei più deboli.

Scritto da Ombretta d’Aura, Casco Bianco a Merida

Dal primo giorno in cui sono arrivata a Merida, Venezuela, ogni mattina osservo quel ranchito (1) appollaiato sulla costa della montagna di fronte a casa nostra. Spesso, sognante, mi sono chiesta come sarebbe stato vivere lassù, come sarebbe stata diversa la mia esperienza di missione. Poi, finalmente, una domenica mi sono ritrovata con Mayra (membro della Comunità Papa Giovanni XXIII che condivide con me la casa di fraternità) ad arrampicarmi sul prato inaspettatamente ripido che circonda la minuscola casetta.

Il sole scottante mi dà alla testa, non riesco a decidermi se fare quel tragitto tutti i giorni mi sarebbe davvero piaciuto, come avevo sempre fantasticato comodamente seduta davanti alla finestra. Nemmeno voglio immaginarmi cosa significhi farlo sotto la pioggia.

Io e Mayra ci giriamo contemporaneamente: Angelo, uno dei bimbi che frequenta il centro diurno che gestiamo per il barrio, ci raggiunge senza la minima difficoltá. Senza maglietta, con gli stivaletti rossi e i pantaloni di un colore indefinito tagliati a due altezze differenti, ci fa uno dei suoi dolcissimi sorrisi, non so se perchè è davvero contento di vederci o se per darci forza, impietosito dalle nostre facce sconvolte. Lui vive qualche centinaio di metri più sotto, con alcuni familiari, due mucche, i maiali la cui presenza si intuisce grazie all’odore “inebriante”, e una decina di galli da combattimento. Il suo cortile è dotato infatti di un recinto circolare dove la domenica gli squattrinati uomini del barrio si ritrovano a scommettere sui galli che con tanta cura hanno allevato nelle rispettive aie (quasi più coccolati dei bimbi), e ad ubriacarsi sotto il sole con la scadente birra venezuelana. È la zona più selvaggia della Carabobo(3): le baracche nascoste dalla vegetazione sono sistemate in spazi ricavati tra le rocce, i fili abusivi dell’elettricità attraversano il sentiero, sostenuti precariamente da corti rami a forma di Y piantati per terra, costringendo i passanti a strane acrobazie per non restarci secchi. Probabilmente è anche una delle zone più pericolose per la vicinanza con il rio Chama e per la caduta massi, causata dai frequenti incendi e dalle piogge. Nonostante le condizioni di vita ancora più precarie rispetto agli altri barrios(4), in questa zona si respira un’aria diversa. Le persone sembrano più semplici, meno arroganti. I bambini sembrano più ingenui rispetto ai loro coetanei, forse la natura riuscirà ancora per qualche anno a proteggerli dalla fredda realtà della Carabobo.Intanto Angelo con l’energia dei suoi 6 anni ci ha sorpassato e, raggiunto il ranchito, si siede ad aspettarci, ridacchiando. Finalmente anche noi arriviamo a destinazione e ci fiondiamo nell’unico angolino d’ombra garantito dalla lamiera che sporge sopra l’entrata. Il padrone di casa nel frattempo esce, siamo quasi a contatto con lui, biascica un “buenos dias” che odora di alcool.

Avrà 35 anni, ma il sole e la trascuratezza lo fanno sembrare di 10 anni più vecchio. Gli spieghiamo chi siamo, compito per me non semplice, e gli chiediamo notizie di sua figlia, una bebè di appena quattro mesi. “I suoi vicini ci hanno detto che è in ospedale, possiamo fare qualcosa per voi?”. Sospira, ‘Domanda stupida’, mi immagino stia pensando. Si appoggia alla parete della casa, che solo allora mi accorgo essere fatta di fango e asticelle di bambù: dalla nostra solida casa di fraternità me l’ero ingenuamente immaginata di cemento. Mentre lo ascolto raccontare con le lacrime agli occhi l’odissea della sua bimba, discretamente mi guardo intorno e mi spiego l’origine di tutte le sue malattie.
La casa è costruita su uno spiazzetto scavato nella montagna, senza nemmeno un albero intorno a proteggerla dai raggi impietosi. Il muro che dà a monte però, non si appoggia alla montagna: mezzo metro di spazio la separa dalla parete di terra, e vi sono accumulate stoviglie e vestiti coperti solo da una lamiera bucata. Una sorta di lavastoviglie naturale, funzionante con la pioggia. Nel rimanente spazio non occupato dalla casa, c’è un tavolo coperto per metà da una lamiera, dove immagino cucinino, anche se non so con cosa. Non c’è acqua corrente, non c’è elettricità, inutile dire che non c’è un bagno. All’interno del ranchito intravedo un letto sfatto e cose ammucchiate ovunque, ma nemmeno una finestra. Come può una neonata non ammalarsi in queste condizioni? Mi chiedo quanto lui ne sia consapevole, nella sua disperazione. Lo osservo mentre continua il racconto delle sue variopinte tragedie: i jeans aperti, macchiati, la pancia nuda, un po’ sporgente, che sussulta ogni volta che si strofina gli occhi con la mano, per trattenere le lacrime, i piedi coperti da vesciche umide, così diffuse da sembrare un’unica grande piaga.Da quando è nata la bimba è entrata e uscita dall’ospedale più volte: per un’otite grave, per denutrizione, per febbre e altri problemi. Questa volta un virus “feo feo feo(5)”: vomito, diarrea, febbre, conseguente disidratazione. Ci racconta delle litigate in ospedale perchè la visitassero, “quasi mi moriva in braccio”. Sorge spontanea la nostra domanda “e sua moglie?”. “Ah, esa mujer(6) – dice sprezzante – i medici mi hanno detto che è lei che sta facendo morire mia figlia, non le sa nemmeno dare il biberon” e ci inonda di una serie di scabrose informazioni sulla sua compagna, apparentemente madre di altri 4 figli ‘regalati’ e nuovamente incinta di un altro uomo. Come confortare un uomo in queste condizioni, che si dichiara ignaro del passato di sua moglie fino a pochi giorni prima? Un insetto bizzarro mi si appiccica al collo, Mayra me lo stacca ma mi ha già azzannato. Più ci racconta e più rimaniamo allibite. Gli chiediamo della casa, se ha la possibilità di averne un’altra tramite il governo, che negli ultimi due anni ha portato avanti il programma “Una casa per un ranchito” con cui aiuta le famiglie più indigenti a comprarsi una proprietà, anche se rimane il problema fondamentale di trovare un lavoro stabile per poterla mantenere. Sembra però che lui abbia perso i documenti che gli attestavano la proprietà di un altro terreno, o meglio che li abbia dati al propietario del ranchito dove ora vive e che questi non glieli voglia restituire. Insomma io e Mayra ci guardiamo stremate, a questo punto forse più dal racconto che dalla salita. I cani entrano ed escono dalla porticina, una gallina sale sul tavolo e zampetta sui piatti che vi sono appoggiati.

Ci ricordiamo delle provviste che abbiamo portato fin lassù, e gli diamo della farina di mais per le arepa, il sostituto venezuelano del pane, del latte in polvere per neonati, pannolini, sale, fagioli. Più che il cibo vorrei offrirgli la mia camera luminosa, il mio bagno, la mia cucina.
Ci congediamo e lo lasciamo sulla soglia, con uno sguardo acquoso, il pensiero fisso di sua figlia violacea nelle sue braccia, il giorno prima. Gli promettiamo una visita in ospedale a breve.

Mentre scendiamo io e Mayra non parliamo, entrambe scosse da tante tragedie concentrate su una sola famiglia, se così si può chiamare, e attente ad ogni passo per non scivolare. Angelo, che durante la visita è rimasto zitto tutto il tempo, ovviamente è gia in fondo e, per non annoiarsi mentre ci aspetta, si dondola appeso a un ramo. Arrivata a casa, guardo di nuovo il ranchito dalla finestra e vedo una figura piccola piccola che scende rapidamente per il prato. Mi chiedo di nuovo se davvero sarei capace di vivere lì, ma mi vergogno immediatamente del pensiero, mi vergogno del mio benessere, di avere troppo, di potermi permettere di sognare la vita da cui tutti qui vogliono scappare. A cena io e Mayra parliamo della bimba, ci chiediamo se non sia il caso di proporre a questo signore di farla andare a vivere per qualche tempo nella casa di accoglienza della Comunità, per lo meno mentre si riprende. Ovviamente non è credibile come soluzione: prima dovremmo guadagnarci la sua fiducia, visitarlo più spesso perchè non pensi che semplicemente vogliamo portargli via la bimba, che sembra essere la sua unica gioia. Tutte e due però continuiamo a pensarci.Il giorno dopo andiamo all’ospedale principale di Mèrida, un posto decisamente sconsigliabile, e all’entrata ci accoglie un gas lacrimogeno sparato per fermare una manifestazione lì vicino. Con un fazzoletto su naso e bocca, saliamo fino al settimo piano, dove è ricoverata la bimba. Troviamo il papà che le dà il latte, sembra contento di vederci. Quando la guarda non riesce a smettere di sorridere e di dire “Ma non è bellissima?!”. Sembra che la bimba stia meglio, ma quando la appoggia sulla sua spalla, intravediamo una strana eruzione cutanea sulla sua schiena. “Ah, sì, sapete, un parassita dei cani”. Guardo Mayra, stiamo pensando di nuovo alla stessa idea della sera prima. “E sua moglie?” tentiamo nuovamente. “Ah, sapete che ieri le ho detto che siete venute a trovarci, che siete dei servizi sociali e che se non tratta bene la bambine ce la portate via, così magari finalmente inizierà a fare la mamma”. Le guance di Mayra arrossiscono, io guardo in basso: forse, però, la nostra visita non è stata del tutto inutile.

Note:1. Baracca.
2. I bambini che frequentano la Tarea Dirigida, il centro diurno che la Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce nel barrio, chiamano gli operatori ‘Profesor/ra’.
3. Una delle zone di Mèrida in cui la Comunità opera.
4. Baraccopoli.
5. “Brutto. Brutto, brutto”.
6. “Ah, quella donna”.

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