Bangladesh Caschi Bianchi

Ritorno in Bangladesh

Diario di viaggio: la strada dall’aereoporto al luogo del servizio civile è affollata di volti, mezzi e pensieri.

Scritto da Marta Garnero, Casco Bianco a Chalna

Sono le 7,20 ora locale del 24 aprile quando atterro a Dhacca per la seconda volta nella mia vita.
Dopo venti giorni passati a casa in Italia: visto scaduto in Bangladesh equivale a rimpatrio e non a rinnovo del suddetto, riprende la mia avventura bengalese.
Uscita dall’aereo vado immediatamente in bagno, vengo colpita inaspettatamente dai rumori della strada che entrano da una piccola finestra: urla, clacson di auto pulman e camion, lo sferragliare di mezzi di ogni tipo che procedono al di là di qualsiasi legge meccanica e dell’usura.
“…Bangladesh!” penso. E di colpo mi assale l’emozione e anche il timore di tornare in questo paese orientale che per questo anno sarà “casa”.
All’ufficio immigrazioni assaporo il particolare atteggiamento riservato dai bengalesi di fronte agli occidentali, misto di riverenza, gentilezza e ostentata efficenza/inflessibilità: un poliziotto fa spostare una lunga fila di uomini bengalesi per far passare prima al controllo 4 donne “bianche” (compresa me), in modo tale che in pochi minuti vengo catapultata fuori, tra la ressa di parenti e amici urlanti venuti ad attendere i nuovi arrivati, stipati contro i cancelli perchè a loro è vietato l’ingresso all’aereoporto per ragioni di sicurezza.

Il calore della gente non è l’unico, infatti il clima sub tropicale si fa sentire nella sua estate torrida e umida, il cielo è velato di foschia e in un attimo sono madida di sudore.
Il tasso di umidità allarmante è lo spiacevole compagno che non ti abbandona mai; di giorno ti stordisce e di notte ti impedisce di dormire, e i ventilatori presenti ovunque in case e uffici risultano piuttosto inefficaci a sconfiggere il caldo.
Fortunatamente individuo subito Gilbert che è venuto ad attendermi, saliamo su un taxi e attraversiamo Dhacca diretti alla stazione degli autobus, dove prenderemo il pulman per Khulna.
Mancano ancora sette ore di bus e trenta minuti di barca prima di arrivare a destinazione.
Fatico a tenere una soddisfacente conversazione in inglese con Gilbert, perché sono stordita dal viaggio e soprattutto dalla terrificante guida del nostro autista. Caratterizza infatti la maggior parte degli autisti bengalesi una guida “sportiva ”e nervosa, fatta di continue accelerate e inchiodate. D’altronde mi chiedo come sia possibile guidare su queste strade super affollate dove non esistono troppe regole se non la prepotenza del più grande, con l’aggravante dell’attraversamento pedonale selvaggio: infatti la gente non attende che il traffico rallenti e attraversa la strada di corsa rischiando la vita.
Spesso a bordo strada ci sono mendicanti di ogni età: attendono che il traffico si fermi e poi si incollano letteralmente ai finestrini delle auto chiedendo l’elemosina, le madri mostrano i bambini, i malati sventolano le ricette mediche e gli storpi non esitano a mettersi in mostra pur di ottenere qualcosa. Grazie alla presenza di un’occidentale al suo interno, la nostra macchina viene presa d’assalto ad ogni stop, mi maledico per aver lasciato i soldi nella valigia senza mettermi in tasca gli spiccioli, e non posso far altro che sperare che il viaggio finisca presto perchè restare impassibili davanti a certe scene è veramente impossibile.
Finalmente arriviamo e salgo sul pulman, mi colpisce come sempre l’odore della gente, pungente e dolciastro, tipico di chi mastica la “foglia di pam”, usanza diffusissima paragonata al vizio del fumo (1). La mia vicina di posto mi chiede come mi chiamo, da dove vengo e soprattutto se sono sposata e dov’è mio marito, le classiche domande di conoscenza che ho imparato a capire e a cui so rispondere in bengalese.
Anche chi ti ferma per strada chiede se sei sposato, infatti lo status di single in questa cultura non esiste, ed il nubilato è riservato a chi è disabile e povero. Una donna a 24 anni è già sposata almeno da 4 anni! Insomma per questo paese esco decisamente dagli schemi.

Partiamo, inizialmente siamo ancora imbottigliati nel traffico di van, risho, camion e pulman fatiscenti, ma dopo poco ci inoltriamo nella periferia. Gli alti palazzoni del centro, precocemente corrosi dalle piogge acide e dall’umidità, si alternano ora a baracche di latta.
Dhacca è una città in continua espansione, ovunque si vedono case in costruzione con impalcatura in bambu sbilenca e decisamante precaria, su cui lavorano muratori funamboli.
I miei occhi colgono aspetti diversi rispetto alla prima volta che ho attraversato questa città, e poi la campagna che sembra un’unica immensa risaia. La prima volta avevo visto solamente il caos, la folla rumorosa e il traffico disordinato, tanto da rimanerne disorientata e quasi spaventata; ora riesco a cogliere un certo ordine in tutto ciò, e mi colpisce soprattutto la sensazione di fermezza che mi deriva dal paesaggio rurale, e che emana dalla tranquillità e lentezza dei suoi abitanti.
Probabilmente mi sto abituando alla proverbiale folla bengalese (il Bangladesh è il paese con la più alta densità di popolazione al mondo,843 ab per km²), la sensazione di essere sempre in compagnia di qualcuno, sconosciuto o conosciuto che sia, l’impossibilità di trovare un attimo di solitudine e di fare una passeggiata da sola.

Sono seduta sull’autubus e mi chiedo che cosa ci faccio qui e perchè dentro di me da sempre coltivo il sogno di essere in “missione”. Le risposte sono profonde e nascoste dentro di me, così la stanchezza vince e mi addormento. Spero però di riuscire un poco a capire il ritmo e in parte l’essenza di questo paese che sento così lontano per mentalità e geografia.
Quando Gilbert mi sveglia siamo già a Khulna ormai vicino alla missione. Mi godo il viaggio in barca, con il vento che mi sbatte sulla faccia e mi obbliga a socchiudere gli occhi. Navigare sul Gange è un emozione grande e farlo al tramonto è impareggiabile.
Oltrepasso i cancelli della missione in sordina, senza i bambini, la musica e le ghirlande di fiori che attendevano gli altri viaggiatori e me la scorsa volta. Mi piace arrivare così, come se fossi semplicemente uscita qualche ora prima per andare a lavorare come faccio di solito.
Rubo qualche scena di normale vita di missione all’imbrunire, poi butto giù la nostalgia di casa mia…qualcuno infatti mi ha notato e mi viene incontro per salutarmi.

Note:1. La foglia di pam si mastica con calce, spezie e noci; lenisce la fame ma corrode denti e gengive colorando di rosso labbra e bocca. Le donne in Bangladesh non fumano sigarette come gli uomini, ma sia uomini che donne soprattutto i poveri, masticano questa foglia.

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