“Il Teatro dell’Oppresso nasce in Brasile, con Augusto Boal, direttore nel 1956 del Teatro Arena di San Paolo”. Boal si propone di utilizzare gli strumenti teatrali per analizzare e trasformare la realtà, “restituendo al popolo i mezzi di produzione teatrale”.
In altre parole l’obiettivo è lo sviluppo della “teatralità umana”, cioè della capacità di ogni persona (non solo dell’artista) di usare il linguaggio teatrale, usando questo medium per conoscere il mondo reale e trasformarlo. In questo modo è possibile scoprire le proprie potenzialità e i propri limiti, aspetti nuovi di sé, nonché il funzionamento di dinamiche oppressive. Parallelamente è possibile sviluppare abilità emotive, corporee, strategiche e progettuali, che costituiscono la trasformazione di sé e la preparazione alla trasformazione della realtà. Venendo in Occidente Boal si rende conto, che spesso colui che si sente oppresso non sa cosa vuole, oppure che il suo desiderio è ambivalente, confuso, oppure sa cosa vuole ma non riesce ad agire per ottenerlo perchè qualcosa dentro lo blocca: il flic (poliziotto). Da qui lo sviluppo, dal 1980 circa delle tecniche chiamate genericamente del flic-dans-la-tete (poliziotto nella testa) sulla base dell’ipotesi che nelle nostre società il poliziotto che ci blocca non è fuori, ma dentro la nostra testa.
Il TdO porta così lo spettatore ad essere protagonista dell’azione drammatica perchè ritiene che questo stimoli la successiva “estrapolazione” di quell’esperienza nella vita reale. Lo “spett-attore” – come lo chiama Boal – entrando in scena e reagendo all’oppressione nella finzione teatrale, si arricchisce di idee ed energie, ha la possibilità di capire e trasformare, in una situazione protetta, per poi affrontare con un maggior bagaglio di strumenti ed esperienze l’oppressione reale.”
(da A. Boal, Il poliziotto e la maschera, introduzione)
Eccoci nella patria del teatro dell’oppresso. Qui stiamo cercando di proporre alla comunità terapeutica della Papa Giovanni XXIII questa metodologia per favorire il confronto interiore e l’apertura a nuove visioni della vita.
Questa esperienza è già stata iniziata l’anno scorso dai caschi bianchi che hanno prestato servizio qui prima di noi. Ora sta continuando, con buoni risultati, seppure le nostre competenze siano limitate per mancanza di adeguata preparazione. Grazie al grande carisma di Manuela, che ci iniziato al TdO durante il periodo di formazione al servizio civile, e una buona dose di intraprendenza, ci siamo tuffate a piedi pari nella diffusione di questo teatro “verità”.
Abbiamo cominciato gli incontri alla fine di gennaio, nella seconda fase del percorso terapeutico “Fazenda Buon Samaritano”, una grande casa in mezzo alla foresta dove si passano le giornate a coltivare la terra, fare i lavori di casa e il percorso di recupero dalla tossicodipendenza con tutti gli step di una comunità terapeutica. La seconda fase qui circa 4-5 mesi, per qualcuno di più, altri invece cedono e se e vanno, quindi il gruppo è in continuo cambiamento. Per questo motivo, e anche, naturalmente, per la storia che le persone accolte hanno alle spalle, la maggiore difficoltà con cui il gruppo si scontra è l’individualismo e la mancanza di fiducia verso gli altri.
Così è stato anche per il nostro primo incontro, in cui abbiamo potuto chiaramente leggere sui volti espressioni di interrogazione, menefreghismo, superiorità, sfida, sfiducia e scetticismo. Chi siete? Perchè siete qui? Cosa volete da noi? Perchè non ci lasciate in pace nell’unico giorno libero che abbiamo durante la settimana? Questo è tutto quello che abbiamo percepito mentre spiegavamo cos’è il TdO e a cosa dovrebbe servire.
Oggi, a tre mesi di distanza da questo incontro iniziale, il TdO è un appuntamento fisso del sabato pomeriggio, atteso da tutti, per ognuno in motivo diverso e con un significato differente. Non vogliamo sapere tutto ciò che i ragazzi pensano, non direbbero sempre la verità, ma i messaggi e gli input che scaturiscono dalle diverse dinamiche che andiamo ad attuare, seppur con debolezza e fatica, sembrano toccare pensieri, sentimenti e voglia di cambiamento di ognuno di loro.
Il riscontro della fatica dei primi incontri è ora in una sviluppata libertà di espressione, ed è quindi indice di maggior fiducia nei nostri confronti e in quello che proponiamo di fare.
Abbiamo basato i primi incontri su giochi-esercizi di integrazione di gruppo, per cominciare a conoscersi e a guardarsi l’un l’altro, a capire chi si ha di fianco e accettarlo. Dopo la settimana di lavoro, preghiera, e riunioni della comunità, questi esercizi diventano delle valvole di sfogo e portano un rilassamento fisico e mentale di cui all’inizio i ragazzi hanno timore; nel corso del laboratorio però, le espressioni del viso diventano sempre più distese, il corpo rilassato e l’apertura verso gli altri è tangibilmente più ampia.
Adesso che il rapporto fra noi e i ragazzi è diventato un po’ più solido, dopo ogni incontro di teatro dell’oppresso ci fermiamo a parlare con i partecipanti in maniera individuale, ascoltando quello che hanno voglia di dirci e di farci conoscere di loro stessi.
Stiamo vivendo questo passaggio, che è stato molto graduale, come una piccola vittoria, come un piccolo spiraglio che loro ci concedono, dandoci l’opportunità di cercare in qualche modo di entrare nel cammino che stanno affrontando di cambiamento della loro vita.
Ogni volta che invece uno di loro “molla” e lascia il centro, lo sentiamo purtroppo come una perdita, anche se non viviamo con loro quotidianamente, una sconfitta, e ci appare davanti gli occhi il viso di quella persona di nuovo con il volto sfigurato della sofferenza, dell’abbandono di se stesso e della sua vita. Vogliamo però credere che anche se sono tornati in strada, a bere o a farsi di crack, qualcosa nelle loro teste sia rimasto, sia degli insegnamenti della comunità terapeutica, sia dei temi toccati con il teatro dell’oppresso e speriamo che riaffioreranno nella mente di ognuno di loro al momento opportuno.
Fabiana è una ragazza di 21 anni, ha una famiglia adottiva alle spalle che le vuole bene. Ha studiato, conosce l’inglese, lavorava in una libreria e ora vorrebbe lavorare nel sociale con bambini senza famiglia, come è stata lei in passato. Sta affrontando il percorso terapeutico per la settima volta da quando aveva 14 anni. Alla mia domanda: “cosa ti spinge a continuare a drogarti?” Lei mi risponde: “la mia incostanza nel cercare di smettere.”
Cominciamo ogni incontro con un riscaldamento fatto di camminate differenziate, respirazioni e scioglimento dei muscoli di tutto il corpo per preparare anche la testa ad aprirsi alle dinamiche che attueremo successivamente. Continuiamo con un esercizio-gioco per sciogliere la timidezza, entrare in sintonia con gli altri e divertirci. Dopodichè diamo spazio ad una dinamica per ampliare ogni senso del corpo; vista, tatto, udito e utilizzo dell’immaginazione. A seconda della finalità dell’incontro, andiamo ad approfondire il tipo di teatro che andiamo a proporre quel giorno, (Teatro-immagine, teatro-forum) con dinamiche più impegnative, da cui nasceranno poi i maggiori spunti di riflessione, di scontro, di pensieri e interrogativi sulla propria vita e sul modo in cui i ragazzi la stanno “spendendo”.
Il regalo più grande è stato il loro ringraziamento alla fine dell’ultimo incontro, per il modo in cui li portiamo a riflettere e per il tempo passato insieme che è l’unico momento della settimana in cui possono stare insieme a scambiarsi una battuta, una risata in un clima di vera condivisione.
Dopo tutto questo impegno, alla fine di ogni incontro, il teatro dell’oppresso ha ormai un suo particolare rito: qualcuno dei partecipanti, noi compresi, viene preso e buttato vestito, in una grande vasca che una volta era dei pesci, ma ora piena di melma e acqua marrone e puzzolente!
E allora, noi continuiamo per questa strada con le nostre piccole vittorie, e con tutta la nostra buona volontà di continuare il cammino che abbiamo intrapreso in questo “caldo” Brasile!
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