Caschi Bianchi Zambia

I ragazzi della classe speciale della Nkwazi School

Emozioni e riflessioni nate dalla condivisione quotidiana della giornata scolastica di ragazzi speciali, che ogni giorno si spostano dalla baraccopoli in cui vivono per scrivere, cantare, giocare, ricevere un pasto caldo ed un sorriso.

Scritto da Mirella Cacciola e Sara Fin, Caschi Bianchi a Ndola

Si pensa di venire in Africa a salvare la gente, si ha l’immagine dei bimbi che sbucano dalle capanne numerosi, sporchi e denutriti. Si parte dall’Italia con la presunzione di cambiare il mondo e cancellare la miseria e la fame!
Arrivando qui si impiega un po’ per capire un pizzico dei molteplici meccanismi di questo complicato angolo di mondo… e accettare che ciò che ognuno di noi può fare è soltanto una piccola goccia, ma ogni conquista nasce da tanti piccoli e possibili passi!
Ormai vado alle classi speciali da due mesi e ogni mattina non vedo l’ora di arrivare e salutare tutti e ridere un po’ per la loro pronuncia non corretta del mio nome! Tutti i ragazzi accolti nella nostra classe speciale di Nkwazi provengono dai compound (baraccopoli), e non possono frequentare la scuola statale a causa dei loro ritardi mentali o fisici dovuti a malattie non curate o malnutrizione. Alcuni sono orfani e vivono coi parenti, altri appartengono a famiglie numerose e anche dove un genitore lavora lo stipendio è misero e non arriva tutti i mesi! Vengono a scuola a piedi dentro le loro ciabatte consumatissime e le uniformi strappate e rattoppate che, per molti sono l’unico indumento posseduto, con quaderni e matite dentro bustine di plastica con il logo di una qualche catena di shops.
Quando piove arrivano inzuppati e infreddoliti, tolgono le scarpe fradice e, se sono fortunati, hanno una succinta maglietta in prestito da indossare mentre i loro panni si asciugano all’aperto e loro si scaldano vicino al carbone che arde… e a me viene da pensare alle loro famiglie rimaste nelle case umide, senza cibo, né carbone.
Dopo la colazione tutti insieme iniziano la lezione: probabilmente nessuno di loro farà mai il medico, l’ingegnere o l’architetto, ma imparare a scrivere e leggere almeno il proprio nome è l’alternativa che gli viene offerta, piuttosto che restare a casa ad aspettare che la loro vita da emarginati trascorra, e tutti i giorni avere assicurato il pranzo invece di mendicarlo sulla strada.

Spesso mi fermo a guardarli quando vanno alla lavagna a provare a scrivere una vocale, noi li applaudiamo… tornando al posto ci cercano con lo sguardo solo per avere un sorriso di approvazione. Basta veramente poco, non occorre inventarsi giochi esilaranti, loro si divertono già con tante matite colorate, e cartelloni appesi alle pareti sui quali appendono sbalorditi le calamitine coi loro nomi che abbiamo fatto io e Sara e che li fanno sentire importanti, degni di rispetto e attenzione!
Quando il livello di concentrazione cala e si aspetta per il pranzo ci sediamo sul prato, iniziamo a battere le mani e loro intonano “Inghila, ah inghila” magari per venti minuti consecutivi senza stancarsi. E mentre tengo il ritmo ogni volta sento l’emozione di fronte ai loro sorrisi che mostrano i denti bianchissimi sui volti scuri, e illuminano i loro occhi. E penso a quanti stimoli per loro, quanti progressi nelle loro vite nelle quali di colorato non c’è molto altro dopo la scuola.

Ed io, cosa son venuta a fare in questa terra rossa piena di contraddizioni? Per la quale ho lasciato un mondo ricco che spesso ci riempie la testa di bisogni futili… Sono qui a riconsiderare tante cose, a dare un diverso significato ai parametri di poco, tanto, abbastanza, a dar valore alle piccole cose, spesso invisibili, a sorridere per poco, a cantare tutto il dì… lasciandomi contagiare dalla positività di questo popolo che nonostante non abbia nulla alla domanda “MULISHANI” (come stai?) risponde sempre con un solare “BWINO”!

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