Caschi Bianchi Cile

I diritti delle minoranze sono i nostri diritti

Tre giorni di cammino del popolo mapuche per chiedere spazi di dialogo e confronto con le autorità cilene. Perché due “straniere” dovrebbero partecipare alla fatica marcia?

Scritto da Serena Castagna e Francesca Gavio, Caschi Bianchi a Santiago del Cile

..le indicazioni sono quelle di raggiungere un ufficio dell’associazione mapuche della cittadina di Traiguen. Bussiamo diverse volte, ma nessuno ci risponde, sembra che non ci sia nessuno. Chiediamo a dei vicini di casa: ci indicano una casa che si trova a pochi minuti da dove ci troviamo, lì dicono che vive un dirigente mapuche. Ma anche da quella casa nessun segnale.
Solo dopo pranzo, davanti all’ufficio, troviamo una bandiera con la croce mapuche e due uomini, che non sembrano indigeni. Invece sono i primi mapuche che ci accolgono. C’informano che la marcia, partita da Lumaco, altra cittadina nei dintorni di Temuco, sta arrivando a Traiguen, dove altri mapuche si uniranno al corteo. Nell’ufficio ci sono donne e bambini che ci guardano perplessi, probabilmente chiedendosi perché due occidentali s’interessano alla marcia.
Prima di riprendere la marcia, Galvarino(1) ci presenta ai partecipanti in qualità di italiane volontarie in Cile presso un’associazione che lavora in Santiago. Gli occhi scuri ed espressivi sono tutti puntati su di noi; il momento d’imbarazzo si rompe quando la donna e l’uomo più anziani tra i presenti vengono a presentarsi e a darci il benvenuto.

I primi ad avvicinarsi sono i giovani, sebbene il ricordo più acceso della prima parte della marcia sia la chiacchierata col sindaco di Traiguen, un’autorità, ma una persona molto semplice, un contadino come la maggior parte dei presenti, con il quale iniziamo una discussione sulla cultura mapuche.

La perplessità sulla nostra presenza alla marcia si estende ad altre tre occidentali, arrivate nel tardo pomeriggio con una Micro(2) da Vittoria. Un’ola mapuche le accoglie. Inaspettato comportamento, a parte le solite domande di rito: ”Da dove venite? Che cosa state facendo?”; infatti, la calda accoglienza iniziale si raffredda a poco a poco, forse per la stanchezza e per la temperatura che rapidamente si abbassa. Per questo motivo, poco dopo il nostro arrivo saliamo tutti sui furgoni alla volta della Ruka, cabaña(3) dove saremo ospitate per la notte.
Questa cabaña è luogo di ritrovo della Comunità Mapuche Nag Che(4) per incontri, riunioni e riti religiosi; per questo motivo di fronte ad essa si erge un Rewe(5) , adagiato sopra l’araucaria, l’albero nativo considerato sacro dalla comunità.
All’interno un gruppo di donne mapuche prepara la cena sul fuoco che ci scalderà anche durante la notte.
Durante la distribuzione della cena, consumata in circolo attorno al fuoco, inizialmente rimaniamo in disparte, osservando e cercando di capire se vengono serviti prima donne e bambini o prima i capi, finché loro stessi ci servono.
Nonostante la stanchezza, la curiosità di assistere al rito religioso intorno al rewe ci tiene sveglie. Il rito è finalizzato al buon esito della marcia. Durante il suo svolgimento viene eseguito nei confronti di Galvarino, da poco portavoce della comunità, un rituale che noi crediamo di iniziazione e il cui senso Galvarino preferisce non rivelarci, perché troppo personale.
Difficile ricostruire il significato non solo del rito, ma anche di oggetti o particolari della cultura mapuche, perché spesso le nostre curiosità non vengono soddisfatte o le risposte alle nostre domande non coincidono l’una con l’altra. Per questo motivo quello che possiamo raccontare è quello che vediamo, anche perché la cerimonia si svolge in lingua mapudunghu.
Davanti al rewe e rivolte verso est, dove sorge il sole, la Machi(6) suona il kultrung(7) , accompagnata da due ragazze sedute di fianco a lei. Uno dei capi batte su dei piatti che contengono il cibo della nostra cena, in quel momento offerto al totem.
La serata si conclude con il rituale della Machi rivolto a Galvarino, attraverso imposizioni delle mani e dei coltelli sul corpo.
Difficile prendere sonno nella cabaña distesi nei nostri sacchi a pelo, nonostante siamo adagiati sulla paglia disfatta e attorno al fuoco, che qualcuno si preoccupa di mantenere acceso tutta la notte.

Ci svegliano all’alba per assistere ad un rito del buon giorno sempre intorno al rewe che consiste nel “ribenedire” i piatti contenenti la cena, peraltro già benedetti la sera precedente, come buon auspicio al gruppo e alla marcia. Lo stesso cibo viene poi utilizzato per la colazione, tuttavia il nostro stomaco rifiuta di mangiare la zuppa di pollo patate e verdure alle sette del mattino.
Dopo la celebrazione, il lonko(8) rimprovera i ragazzi più giovani, in quanto sembrano poco motivati rispetto alla marcia, che per alcuni, secondo le sue parole, sembra più una passeggiata che una rivendicazione dei propri diritti.
Saliamo sui furgoni per uscire dal campo dove abbiamo dormito per cominciare il secondo giorno di marcia. La prima tappa è Vittoria, dove si aggiunge un altro piccolo gruppo di Mapuche; da lì proseguiamo camminando sulla Panamericana per raggiungere un campo nelle vicinanze di Temuco, dove ci accamperemo con le tende per trascorrere la seconda notte.
Inizialmente non capiamo il significato di marciare sulla Panamericana, ci sembra più sensato camminare attraverso i campi, attraverso le comunità mapuche. In seguito ci rendiamo conto che è un ottimo metodo per informare tutti coloro che percorrono quella strada, molto trafficata, anche i conducenti di camion che trasportano legna, poiché uno dei motivi di protesta è il disboscamento incontrollato delle loro terre, oltre che le eccessive piantagioni di pino ed eucalipto, che privano i loro terreni di acqua.
Possiamo identificare uno dei momenti più interessanti della marcia nel pranzo del secondo giorno: non per il pranzo in sé, sebbene mai avremmo pensato di mangiare così bene in questi tre giorni, quanto perché i nostri compagni di viaggio cominciano ad incuriosirsi del motivo per il quale stiamo condividendo con loro quest’esperienza e del fatto che scattiamo foto. Alcuni di loro ci lasciano l’indirizzo e-mail delle varie associazioni o comunità per inviare il materiale fotografico al nostro rientro in Santiago, oltre che per invitarci a conoscere le stesse comunità.
La seconda notte dormiamo in tenda.
Al centro del campo dove le tende vengono montate alla rinfusa, viene acceso il fuoco.
Durante la cena arriva un ospite, un peñi che ha studiato medicina fuori dal paese e che ha deciso di unirsi a noi per l’ultimo giorno di marcia, nonché di visitare, nei giorni successivi, coloro che nella comunità ne avrebbero avuto bisogno.
L’ultima notte, dopo due giorni trascorsi insieme, finalmente tutti riusciamo a rilassarci, forse anche a sentirci un solo gruppo e non quattro occidentali tra indigeni. Un capo chiede ad una di noi di tradurre alcune parole dallo spagnolo all’italiano e di seguito lui le traduce in mapudunghu: è divertente sentire come pronunciano alcune parole in italiano, storpiandole, per esempio quando dicono “ho sonno” sembra che riproducano con suoni la parola “ozono”.

Anche il terzo giorno ci svegliano all’alba per un rituale di buona riuscita della marcia e poi un’ultima mezza giornata di marcia.
Di nuovo sulla Panamericana fino ad una stazione di rifornimento carburante, dove un altro gruppo di peñi ci attende: hanno raggiunto la marcia, dalle loro comunità, con una micro. I chilometri che ci separano dal centro di Temuco, dove la protesta sarebbe entrata nel vivo, sono ancora molti e dobbiamo essere in piazza all’ora di pranzo, perciò montiamo sulle camionette e sulla micro.
Quando scendiamo dai mezzi di trasporto ci rendiamo conto che il numero delle persone in marcia è aumentato considerevolmente e si sono aggiunti bambini e bambine, donne e lonkos con gli abiti tipici mapuche, gli uomini con la manta e le donne e le bambine con un grembiule blu o verde, il copricapo con strisce di vari colori e il pettorale di argento.
Questa volta le “occidentali”si attrezzano anche con uno striscione, fiere di poter partecipare alla marcia.
Il percorso all’interno di Temuco prevede una prima tappa agli uffici dell’intendenza e poi alla piazza del centro.

Qui tutti disposti in cerchio ascoltiamo il discorso di Galvarino, il quale ribadisce tutti i punti principali della marcia, otto per l’esattezza, e infine, prima di chiamare altri personaggi importanti, come i lonkos delle varie comunità e il fratello di un prigioniero politico. Lo stesso Galvarino dichiara che avremmo aspettato l’arrivo di qualche autorità. In caso contrario, saremmo andati all’intendenza per rivendicare almeno il diritto di essere ascoltati dalle autorità.
La marcia si conclude con un acquazzone che ci coglie di sorpresa e con la bella notizia che grazie a queste tre giornate la comunità mapuche Nag Che raggiunge in parte il suo scopo. Infatti, nonostante nessuna autorità si sia presentata nella piazza, i mapuche vengono cortesemente accolti negli uffici dell’intendenza per decidere in quale giornata i lonkos e le autorità cilene potranno incontrarsi per raggiungere un compromesso tra le richieste dei mapuche e il volere dell’autorità.
Il ritorno a Santiago è abbastanza prevedibile: salite sul bus, nessuna parola e un lungo sonno, dopo due notti praticamente insonni, con il sorriso e la consapevolezza di aver sostenuto valori e ideali in cui anche noi crediamo e, perché no, di aver esercitato il nostro diritto e dovere di casco bianco.

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