Caschi Bianchi Ecuador
Barrio Isla Piedad, Esmeraldas
Una realtà da documentario, che solo una videocamera potrebbe trasmettere agli occhi di chi vive in quella fortunata parte del mondo lontanissima dalle situazioni che i bambini sono costretti a vivere nei barrios.
Scritto da Chiara Preti, Casco Bianco a Santo Domingo de los Colorados
Mai nella mia vita avevo visto tanti bambini, centinaia in un solo barrio (quartiere), scalzi, nudi, che giocano con le pistole, corrono, e mostrano il pancione da denutrizione. Bellissime faccette nere, dagli occhi grandi pieni di curiosità al vedere arrivare due ragazze bianche, per di più gringhe (straniere).
Ad ogni uscio di baracca una donna coricata che sfugge dal calore dei raggi equatoriali in una piccola ombra circondata dalle vicine e dai bambini, molti uomini sfiniti dal calore e dall’alcol giocano a carte negli angoli delle vie. Anche loro si girano a guardarci e fischiano al compaesano che ci accompagna. Non so perché ma questa scena ci ricordava una Cuba mai vista.
Cosa facevamo io e la mia compagna in un quartiere del genere?
Accompagnavamo a casa loro quattro ragazzini che frequentano il gruppo dei gomeros (ragazzi dipendenti dal consumo di droghe, e in particolare dall’inalazione del cemento da contatto, più volgarmente colla per scarpe) della città dove lavoriamo, Santo Domingo de los Colorados.
Questi ragazzini che vivono e dormono per strada, chiedendo l’elemosina per mangiare e per drogarsi, vengono da varie parti del paese, ma in particolare dalla costa, da Esmeraldas.
Durante 8 mesi, ogni giorno mi sono chiesta, osservandoli e vedendo come vivono, da che tipo di situazioni familiari venissero, da cosa scappassero.
Ebbene, dopo essere stata a Isla Piedad, ho capito ad esempio cosa spinge Ernesto, il suo fratellino Juan, e il cugino José a scappare regolarmente da una vita di stenti e a radunarsi a vivere nella costruzione occupata a Santo Domingo. Per lo meno qui trovano chi gli dà da mangiare, ci sono persone che regalano vestiti ed elemosina, mentre a Esmeraldas devono lavorare per riuscire a mangiare, devono badare ai fratellini più piccoli tutto il giorno e non si possono nemmeno permettere di andare a scuola. La madre da sola deve mantenere 11 figli, che vivono tutti con lei in un’unica stanza a palafitta, costituita da due letti, una cucina a gas, una catasta di vestiti ed un televisore, con tutte le conseguenze di un ambiente così piccolo e promiscuo. Le due sorelle di Ernesto, di 13 e 18 anni, sono entrambe incinte.
L’ultima volta che ho trovato Juan ed Ernesto nella costruzione a Santo Domingo, appena arrivati da Esmeraldas, ho chiesto a Juanito perché avesse abbandonato un’altra volta la scuola scappando di casa, e mi ha risposto elencando tutte le materie per le quali non aveva un quaderno. Mi sono ricordata che la difficoltà maggiore per i poveri che vogliono far studiare i loro figli in questo paese è costituita dall’obbligo di comprare uniforme e materiale scolastico, oltre a pagare la tassa annuale.
Quando Juan, sdraiato su quel materasso sporchissimo con la testa penzolante all’ingiù, appena sveglio e con la colla appiccicata ovunque nei vestiti e nei capelli, mi elencava sulla punta delle dita minute le materie scolastiche, mi sono sentita così triste e impotente, che ho deciso di voler conoscere questa realtà da cui veniva. Ernesto mi raccontava della loro madre, di come facesse fatica a mantenere lui e i suoi fratelli, abbandonati dal padre; mi raccontava che lavava vestiti, vendeva cibo in strada, che studiava di sera… e poi mi raccontava della madre di Josè, loro cugino; la imitava zoppicando, diceva che era inferma, e che se io fossi andata con lui a casa l’avrei conosciuta, avrei visto “com’era la povera madre di José”… e così mi sono decisa ad andare, insieme a Maria, a conoscere veramente le loro mamme e a cercare di capire perché stavano lì.
Appena arrivate a Esmeraldas con Ernesto, Juan, José, e il loro amico vicino di casa Cristian, abbiamo contattato una Fondazione del luogo, che curava un progetto creato dai salesiani, all’interno del barrio stesso di Isal Piedad, per famiglie povere che mandano i bambini al centro dove ci sono educatori e ricevono un piccolo aiuto economico per mandarli a scuola.
Quando abbiamo accompagnato in auto i ragazzini alle loro case eravamo sotto l’occhio di tutto il vicinato. I ragazzini erano tutti preoccupati di arrivare vestiti bene, puliti, e con qualcosa da mangiare per la mamma, e così sono arrivati…. la cosa più scioccante è stato vedere la reazione delle madri al loro ritorno: gioia velata d’indifferenza, come se già avessero visto troppe volte questa scena. Questa volta i loro figli erano accompagnati da noi, due gringhe, e da un’assistente sociale, per comunicare ufficialmente che si stava cercando di aiutarli offrendo una mano alle madri, per il bene dei bambini.
Queste madri sono abituate a ritrovare figli morti, ad avere figli che crescono drogandosi e diventano delinquenti, sono abituate ad avere fino a 15 figli e a crescerli sole perché i mariti hanno altre donne e tornano da loro per metterle incinte senza poi assumersi la responsabilità delle conseguenze.
La madre di José mi ha fatto una pena enorme: realmente è come la descriveva Ernesto, e nonostante i suoi problemi e la sua deformità, dimostra il suo affetto per i figli che non sa come crescere… con gli occhi lucidi mi ha raccontato del figlio maggiore che è drogato e delinquente, dice che la deruba per comprarsi la droga, e che la minaccia. Forse non sa che anche José è su quella strada, che quando viene a Santo Domingo si droga tutto il tempo, e che rischia seriamente di perdere anche lui.
Ogni giorno mi chiedo: esiste una soluzione per questi ragazzini, una via d’uscita, una speranza di cambiamento?
Dopo un anno d’inserimento in questo contesto, e dopo aver conosciuto le storie di vari ragazzini, mi sono resa conto che solo il grande cuore e la voglia di amare di una persona o di una famiglia che possa offrire loro stabilità ed educazione, una prospettiva di lavoro e quindi di una vita “normale” rappresentano la soluzione ai loro problemi. Dato che pochi hanno la sorte di trovare tutto ciò, spesso il loro futuro è facilmente prevedibile come il presente, se non peggio. Li aspetta la droga, la strada, la fame, il furto, la prigione, una vita nell’illegalità e nella solitudine. E se non escono dal circolo vizioso della droga, non hanno molti anni davanti.
Attualmente Ernesto e José sono internati in un centro di riabilitazione a Esmeraldas, dopo esser stati arrestati dalla polizia. Il fratellino di Ernesto, Juanito, è tornato in strada a Santo Domingo con il gruppo dei gomeros. Cinque ragazzi del gruppo sono attualmente nel carcere dei minori per detenzione illegale di droga, diversi grammi di base di cocaina, ma le accuse spesso sono false, un pretesto per metterli dentro e ripulire un po’ le strade della città, mentre rimangono liberi i trafficanti che fanno entrare la droga illegalmente nei carichi di pesce che arrivano al mercato di Santo Domingo.
Questa è la dura realtà dell’Ecuador, interi quartieri poverissimi di città che non godono nemmeno di acqua potabile, dove i bambini crescono per strada tra la droga e la violenza. E lo stato non interviene, anzi, condanna questi figli della miseria e dell’ignoranza e cerca di eliminarli.
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