Editoriali Italia
27 gennaio, Giornata della Memoria
Per non perdere la memoria: Franz Jägerstätter e Sophie Scholl, due storie di disobbedienza civile e nonviolenza nell’opposizione al regime nazista. E anche per ricordare sempre, come diceva Primo Levi, che “non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano”.
Scritto da Francesca Ciarallo (Redazione Antenne di Pace)
A mezzogiorno del 27 gennaio 1945 vennero aperti i cancelli del Lager di Auschwitz.
Vi entrarono i soldati sovietici dell’Armata Rossa liberando 7000 prigionieri che ancora sopravvivevano nel campo di concentramento.
Il Parlamento Italiano, con la Legge 20 luglio 2000, n. 211, ha dichiarato il 27 gennaio Giorno della Memoria “al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte…”.
E’ difficile parlare di questa commemorazione senza rischiare grandi retoriche. Eppure è importante che non passi inosservata, è importante ricordare, ma non solo: dare al ricordo un significato, un valore, un contenuto per cui possa essere uno strumento educativo per il presente, ed in grado di proiettarsi nel futuro, proprio per dare un senso alle parole: “mai più”.
E’ difficile fare memoria di qualcosa che si è vissuto solo attraverso le pagine dei libri di storia, soprattutto per i giovani. E comprendere davvero cosa ci può essere dietro alla frase “sei milioni di ebrei sterminati”, quando nessuno di questi era un familiare o un amico, e non ne siamo stati toccati in prima persona. “E’ difficile capire quanto i tragici eventi del passato continuino a condizionare non solo la vita quotidiana dei singoli ma anche la storia di un’intera nazione”(1), Israele.
Ebrei, e non solo: se volessimo classificare le vittime del nazismo in grandi macrocategorie potremmo dire che vi furono vittime “per ciò che erano”, vittime “per quel che facevano” e infine vittime “per ciò che rifiutavano di fare”.
Nella prima categoria ci sono gli ebrei, ma anche i rom e i sinti. Nella seconda tutti coloro che mostravano attitudini e comportamenti divergenti dall’ideologia o dalla morale nazista, come gli omosessuali e gli oppositori politici. La terza categoria è probabilmente la meno conosciuta. Vi rientravano coloro che rifiutavano di prestare servizio militare e i militari che rifiutavano di obbedire ad ordini considerati immorali.
Un gruppo di appartenenti a questa categoria è stata quasi del tutto ignorata dagli storici: gli obiettori di coscienza e i fautori della nonviolenza.
Franz Jägerstätter, ad esempio fu uno di questi.
Umile contadino, sposato con tre figlie, nativo di un piccolo paesino austriaco, il 9 agosto 1943, a soli 37 anni, venne decapitato dopo la condanna a morte comminatagli per aver rifiutato risolutamente di essere coinvolto nella guerra di Hitler. non rifiutò soltanto il giuramento a Hitler ma l’intera ipotesi di servire in armi manifestando così un pacifismo totale. La notte prima dell’esecuzione Franz la trascorse solo in cella in compagnia di un foglio di carta e di una penna. Il foglio di carta era un documento con il quale si impegnava a servire nell’esercito tedesco. Sarebbe bastata una firma per salvarsi la vita.
Jägerstätter nel giugno 1940 era stato chiamato al servizio militare ed aveva prestato giuramento di fedeltà a Hitler come tutti i soldati. Venne quasi immediatamente rimandato a casa per “insostituibilità”. Un uomo è considerato insostituibile quando rappresenta l’unico sostentamento per la famiglia. Nel 1940 e nel 1941 fu richiamato ma riuscì sempre dopo brevi periodi e senza mai essere impiegato in operazioni militari a rientrare a casa a causa della sua insostituibilità.
Nel 1943, quando all’esercito occorrevano tutti gli uomini abili, venne richiamato nuovamente. Inizialmente non si presentò in caserma poi, sotto pressione del parroco partì, ma al momento dell’inquadramento dichiarò che non avrebbe portato armi. Combattere per il nazismo era contrario alla sua coscienza. Ovviamente questo atteggiamento lo condusse di fronte ai tribunali militari. Negli atti processuali si trova questa dichiarazione: “E’ impossibile per me essere contemporaneamente nazista e cattolico”.
La radicalità della decisione morale di Jägerstätter fu estremamente pericolosa per il regime nazista. Considerare il cattolicesimo incompatibile con il nazismo ed il fascismo è una posizione troppo temibile, probabilmente per questo motivo fu azzittito, lasciato solo, e tuttora non è un personaggio conosciuto.
Un’altra figura che ci colpisce particolarmente è quella di Sophie Scholl, unica donna del gruppo di resistenza nonviolenta “la Rosa Bianca”. Proprio nei mesi scorsi il regista Marc Rothemund ha portato sugli schermi cinematografici la storia di Sophie e del suo movimento. Nel film la figura di questi giovani viene presentata con un senso morale talmente alto, con una tale dignità di fronte al perseguimento dei propri ideali, da pensare che, senz’altro, la pellicola sia sufficientemente romanzata. Ed è impressionante sapere invece che il 90% di ciò che è narrato è strettamente documentato da fonti ufficiali, in particolare i dialoghi sono interamente tratti dagli atti processuali.
La “Rosa Bianca” è un gruppo di universitari, non ebrei, che decide di ribellarsi ai dettami di Hitler attraverso una resistenza passiva alla politica militarista del Terzo Reich, affìdandosi al potere persuasivo della parola e della ragione per risvegliare l’opinione pubblica, con una modalità del tutto nonviolenta. Così nel 1943 a Monaco due fratelli, Sophie e Hans Scholl e un altro membro del gruppo, Christoph Probst, vengono sorpresi a scrivere e distribuire volantini “sovversivi”, conseguentemente arrestati, interrogati e infine giustiziati.
Come ricorda lo storico Franz Joseph Müller “la Gestapo torturò Sophie Scholl per quattro giorni, dal 18 al 21 febbraio 1943. Sophie Scholl era la persona più forte all’interno del gruppo della Weisse Rose, la più determinata, la più sincera e la più attiva. […] Il cappellano del carcere che la vide poco prima dell’esecuzione testimonia che era senza paura, calma. L’uomo della Gestapo che conduceva l’interrogatorio le chiese alla fine: “Signorina Scholl, non si rammarica, non trova spaventoso e non si sente colpevole di aver diffuso questi scritti e aiutato la Resistenza, mentre i nostri soldati combattevano a Stalingrado? Non prova dispiacere per questo?”, e lei rispose: “No, al contrario! Credo di aver fatto la miglior cosa per il mio popolo e per tutti gli uomini. Non mi pento di nulla e mi assumo la pena!” Aveva 22 anni.
Quella di Sophie è una storia di coraggio, disobbedienza civile, affermazione nonviolenta che ci obbliga in qualche modo a chiederci quanto noi stessi siamo disposti a dare in nome degli ideali, e quanto davvero siano ferme le nostre convinzioni.
Nella Giornata della Memoria ci piace ricordare queste due figure. Due giovani, una riflessione per i tanti giovani che spesso fanno delle scelte belle, in qualche modo diverse, come quella fatta dai Caschi Bianchi e da tutti coloro che, in nome di ideali di nonviolenza, accoglienza dell’altro, libertà e difesa dei diritti umani, si mettono in gioco in prima persona.
Diceva Primo Levi: “Non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno.”(2)
Tom Segev, storico, giornalista e docente universitario israeliano, è stato corrispondente dalla Germania per il quotidiano israeliano Maariv. Attualmente è editorialista di Haaretz, uno dei maggiori giornali isreliani.
(2)Cit. da Primo Levi, La ricerca delle radici, in “Opere”, Einaudi, Torino 1997, vol. II.
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